Quando la sinistra “dice cose di destra”
di Gino Agnese

La destra sa abbastanza della sinistra, ma la sinistra non sa nulla della destra. Questo squilibrio dà fiato a quanti, da sinistra, ancora adesso domandano: “Ma voi, chi avete? Chi sono i vostri scrittori? E i vostri artisti? E che cosa avete dato agli studi?”. La sinistra bastò a se stessa e ne ebbe anche d’avanzo. Oggi si accende di qualche curiosità per la destra il fatto che questa ha una funzione, persino capillare, nella varietà delle istituzioni. E’ appunto funzionale, ora, la presenza della destra nei dibattiti, nel confronto delle opinioni, nei consessi. “Chi chiamiamo?”, si chiedono. E chiamano i due o tre della destra che miracolosamente - e ancorché meritamente - riuscirono a mettersi in luce durante questi ultimi anni, quando già si avvertiva che il vento sarebbe potuto cambiare. E poi? Poi è il buio. E allora, siccome non si trova, mettiamo, il titolare d’un punto di vista filosofico di destra, e siccome quel titolo non può essere trascurato, si può ben chiamare Biagio De Giovanni, che per tutta la vita ha nutrito dei suoi libri la sinistra ma presentemente ripete - forse ignaro - ciò che si legge nei fogli della destra dal 1989: e cioè che la sinistra si sfascia, arretra, perde perché sconta la propria inadeguatezza culturale. Dunque, ecco De Giovanni supplente d’un qualche suo omologo che a destra, ma no, non ci sarà di certo, e, chissà, non s’incontrerà neppure nell’arca più vasta alla quale si rivolge “Ideazione”, rivista che esce da otto anni, che conta firme insigni, che è spesso autorevolmente citata ma che, essendo esterna all’universo della sinistra, è sconosciuta per esempio ad Antonio Tabucchi (Corriere della Sera, 31 maggio).

La destra ha il cuore grande, l’ultimo arrivato lo mette in testa alla fila e i supplenti come De Giovanni sono già tanti. Fossero dei voltagabbana, o dei “canguri”, o dei cultural climbers, il loro caso non sarebbe interessante. Ma no, i supplenti della destra (e del centrodestra) credono davvero, oggi, in quel che scrivono, come veramente credettero in quel che scrissero e fecero. Adesso sono sinceramente - e talvolta finanche smodatamente - di destra. Ed abituati come sono, fin dalla culla, all’autoreferenzialità, non considerano neppure l’ipotesi che la loro fumante minestra possa essere stata già cucinata da altri e altrove - giornali, riviste, convegni - magari dieci o vent’anni fa. Insomma, la lingua della destra nelle bocche della sinistra. In una scioltezza, in una disinvoltura che si spandono nella diffusa dimenticanza del passato, anche il più recente; la quale, come sappiamo, è conseguenza dell’eccedenza informativa quotidiana e costituisce un connotato del nostro tempo storico. Per di più, questi supplenti hanno il vantaggio della notorietà, talvolta persino della celebrità, acquisita durante la fortuna della sinistra. E quindi vanno agilmente per la loro facile strada, come sempre.

Resta, è vero, un punto di distinzione: ed è il metodo, ed è la modalità espressiva e attuativa che i supplenti - chiamiamoli così - mettono in campo. Nessuno ci fa caso, ma qui essi rivelano la loro origine. Tendono per esempio all’organizzazione della cultura: pensatoi, centri di elaborazione delle strategie, inquadramenti, procedure finalizzate all’unità, eccetera. La produzione di organizzazione è una fissazione storica della sinistra e le fu letale, come s’è visto, poiché la distrasse e le impedì di cogliere la portata sconvolgente delle stupende novità fiorite nella modernizzazione. Soprattutto le novità che modificarono l’universo della comunicazione e tuttora lo vanno modificando: novità che invece furono colte, per intuizione o per studio, per quanto in varia misura, nell’area della destra, dove il fascino dell’organizzazione non attecchì mai e dove la dispersione, la libertà dai vincoli, acuì il “visus” dei migliori. Il rischio, quindi, è che i supplenti impiantino nella destra la loro “forma mentis” e in essa diffondano le modalità archeologiche della sinistra: così che la destra diverrebbe una traduzione della sinistra, con la conseguenza - traduction-trahison - del dileguarsi d’ogni lettura originale e creativa della inedita realtà che c’è d’intorno.

Né, a ben vedere, può sempre valere l’obiezione secondo cui queste supplenze sono dovute all’insufficienza della destra, o degli uomini di destra attivi nel campo culturale, i quali si lasciarono sottrarre i temi e gl’interventi che erano patrimonio tradizionale della loro parte e che adesso vengono avanzati dagli “ex” della sinistra, o dalla sinistra addirittura. E’ un’obiezione che già qualche anno fa venne prospettata da Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera e certamente è suffragata da alcuni comportamenti. Ma, nel fondo, essa rimanda ad assetti della politica ormai archiviati, resi obsoleti ed anzi trascorsi per effetto delle tecnologie di comunicazione progressivamente affermatesi fin dagli anni Settanta. Detto in breve, quell’obiezione rimanda al tempo dei comparti ideologici, al sistema dei partiti, al mondo delle appartenenze. Siamo invece in una condizione politica nuova, in forza della quale “tutto è di tutti” e su tutto primeggiano le figure dei “leader”: figure accreditate anzitutto dal favore mediatico, che solo in parte è nutrito dalla stabilità delle enunciazioni programmatiche o da quelle riconducibili alle categorie d’antan di “destra” e “sinistra”. Concludendo: in qualche modo e per qualche verso, il supplente mutua il proprio ruolo da quello del manager, per il quale è irrilevante la ragione sociale della ditta, che può essere un calzaturificio, un acquedotto, un ospedale, un’azienda editoriale e quant’altro. Un mestiere esecutivo. Che nella fattispecie di cui s’è discorso diviene pericoloso, poiché né l’ambito culturale né l’ambito politico son delle ditte.

19 ottobre 2001

 

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