Narrativa. La vittoria del fattore umano
di Carlo Roma


Maurice Castle, funzionario dei servizi segreti britannici, è al centro di una fuga di preziose informazioni sulle condizioni politiche dell’Africa. Dal suo ufficio di Londra, insieme all’assistente, il giovane e vizioso Arthur Davis, predispone con metodico impegno una rete ramificata di rapporti con le sedi distaccate dell’Africa orientale e meridionale. La sua vita privata, lontana dalla confusione e dalla frenesia della città, si svolge con una regolarità maniacale al riparo da qualunque tipo di sospetti ed insinuazioni. La moglie Sarah, una ragazza di colore conosciuta durante una missione in Sudafrica, è lo specchio della la sua coscienza spesso tormentata e, al tempo stesso, una compagna appassionata e fedele. Castle, insomma, è il ritratto - in realtà apparente ed illusorio - dell’agente segreto fidato e discreto, morigerato ed abitudinario. Via via, però, le consuetudini di tutti i giorni si incrinano fino a spezzarsi del tutto. Un debito di riconoscenza, maturato nel corso del suo soggiorno in Sudafrica, condizionerà in modo ineluttabile il suo lavoro.

Una sera come tante altre, dunque, dopo aver compiuto il consueto tragitto in treno dal cuore di Londra fino alla sua villetta appartata nella serena campagna inglese, Castle, appena entrato in casa, percepisce con stupore una nota diversa nella placida atmosfera domestica. Una semplice e banale sfumatura. Un’inezia, si direbbe. Sarah non ha rispettato una tradizione oramai consolidata da tempo: non ha posato, sulla credenza del soggiorno, la solita bottiglia di whisky. Gli ambienti sono silenziosi e quieti e Sarah sembra essersi allontanata. Castle, diffidente e preoccupato, mentre si avvicina alla cucina, scandisce in modo ritmato il nome della moglie. Non ottiene risposta. Trascorre qualche minuto di incertezza. Sarah, sorridente, appare sulla scena. Lo accoglie e lo tranquilizza. “Che cosa c’è?” chiede con un tono rasserenante “Ero preoccupato. Tutto sembrava sottosopra, questa sera, quando sono entrato. Tu non c’eri. Non c’era nemmeno il whisky.” Eppure un senso di attesa carica di incognite incombe sui due. Il telefono squilla, intorno alle otto, senza che nessuno risponda. “E’ accaduto tre volte questo mese.” precisa Sarah. Anche l’irreprensibile Castle, allora, come il suo collaboratore Arthur Davis, è sottotiro. L’amministrazione ha scoperto che un dipendente corrotto comunica ai sovietici notizie delicate sull’attività di spionaggio del Foreign Office. I sospetti ricadono sul povero Davis: solo, dedito all’alcool e alle donne, Arthur Davis sembra essere il perfetto capro espiatorio. Verrà trovato, infatti, privo di vita nel suo piccolo appartamento stroncato da un malore alquanto sospetto. L’irreprensibile funzionario Maurice Castle, intanto, continua a porre nelle mani dei sovietici tutti i rapporti prodotti dal suo ufficio. Protetto ed aiutato dai russi, nei giorni tempestosi del suo incarico in terra africana, la sua coscienza gli impone ora di saldare il debito di riconoscenza contratto. Fino a correre tutti i rischi del caso, compresa la separazione dalla sua amata Sarah.

Graham Greene in “Il fattore umano” pubblicato nel 1978 ritorna al genere letterario che lo ha reso famoso: lo spionaggio. A vent’anni di distanza dall’ironica parodia del ruolo dell’intelligence nel contesto plumbeo della guerra fredda del romanzo “Il nostro agente all’Avana” del 1958, lo scrittore rappresenta la storia di un vero agente segreto britannico, il suo amico Kim Philby, costretto a riparare in Russia dopo aver passato informazioni ai sovietici. Dosando con efficacia la tensione psicologica ed il sano e vigoroso umorismo inglese, Greene descrive i tormenti di Maurice Castle: un uomo che, oramai vicino alla vecchiaia, anteporrà il senso di riconoscenza verso i russi alla sua etica professionale; sarà vinto dal fattore umano.

28 settembre 2001

crlrm72@hotmail.com

Graham Greene, Il fattore umano, Oscar Mondadori, 1978, pagg. 338, lire 14.000.
 



 

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