Furet, l'occhio dello storico
di Giuseppe Parlato

Il recente volume di Furet è una sorta di dimostrazione di come uno storico possa anche essere un buon giornalista senza perdere un grammo della propria valenza storiografica. Gli occhi della storia, infatti, è la postuma raccolta degli articoli che Furet ha scritto per France-Observateur e per Le Nouvel Observateur in un arco temporale che va dal 1958 al 1997, anno della sua scomparsa. Preceduta da due stimolanti introduzioni, rispettivamente di Marina Valensise, curatrice dell’edizione italiana, e di Mona Ozouf, che offrono un quadro assai suggestivo del personaggio, la scelta degli articoli dello storico francese è stata suddivisa in cinque sezioni: lo storico giornalista, il fenomeno comunista, l’America, Israele e la vita intellettuale. Si tratta di suddivisioni soltanto formali, utili per sottolineare il filo conduttore proposto da Mona Ozouf nell’edizione francese (Un itinéraire intellectuel, Calmann-Lévy, Paris, 1999); manca, ovviamente, la sezione dedicata alla Rivoluzione francese perché il 1789 costituisce il principale tema portante del volume. Tra le pagine riemergono le note tesi di Furet: la non centralità del periodo giacobino e invece la fondamentale esigenza di comprendere Direttorio e Termidoro nella formazione della nuova Francia dell’Ottocento; la polemica sulla mitizzazione di Robespierre; la contestazione della tesi della “rivoluzione tradita” e il ribadire la necessità che una rivoluzione deve comunque concludersi (“il problema delle rivoluzioni sta tutto nel riuscire a finirle”); la complessità del fenomeno rivoluzionario, fino a giungere all’inspiegabilità di alcune evoluzioni contraddittorie (ad esempio, democrazia totalitaria e liberalismo) sorte dai medesimi avvenimenti.

Tuttavia, è sull’uso e, quindi, sull’eredità politica della Rivoluzione del 1789, che Furet si sofferma principalmente. Con la caduta dei regimi del socialismo reale è apparso evidente ciò che lo storico francese andava ripetendo da molto tempo, e cioè che l’importanza conferita dalla storiografia al fenomeno giacobino, dal 1920 in poi, finì coll’avere una giustificazione politica. La Rivoluzione francese, in altri termini, o si concludeva con la rivoluzione proletaria o non avrebbe avuto senso storico. Pertanto la storiografia per decenni ha fatto leva su tre punti concettuali fondanti la rivoluzione ma, in realtà, fondanti uno schema interpretativo per il quale la Rivoluzione del 1789 (o, meglio, del 1793) non era ancora conclusa: la violenza rivoluzionaria come violenza “necessaria e morale”; l’idea della rigenerazione del cittadino da parte dello stato, anche contro la propria volontà; l’idea di una grande nation guida del processo rivoluzionario. Ciò, per quanto riguarda la Rivoluzione francese, ha prodotto il senso di una presenza reale e politicamente attuale della rivoluzione e dei suoi miti nella politica e nella storia recente. Significativamente Furet ricorda la storiografia di Mathiez, dedotta dal modello russo (demonizzazione di Danton come di Trockij) e ricorda come il Partito comunista francese abbia dovuto, per legittimarsi, diventare l’erede del movimento giacobino. La volontà generale non genera nemici ma solo ostacoli da abbattere mentre il popolo “vero” è rappresentato dal movimento giacobino: gli altri sono semplicemente “controrivoluzionari”. La caduta dei regimi comunisti, nota Furet, potrebbe portare ad un generale rivolgimento della situazione, anche in campo storiografico: sarebbe però necessario che la sinistra - sia a livello politico, che a livello storiografico - razionalizzasse tale cambiamento, facendo i conti con il proprio passato. Meno di dieci anni fa, in un volume-intervista curato da Lucio Caracciolo, Furet sottolineava la medesima esigenza, raccomandando un approfondimento delle società totalitarie del Novecento: “Eppure l’esperienza comunista del XX secolo è fondamentale per chi voglia capire la modernità. Lo è come quella fascista. Bisognerà digerire, cioè capire quel che è accaduto. Nella misura in cui tante menti occidentali sono state raggirate dalla mitologia comunista, si può già vedere che molte tra queste preferiranno non approfondire le origini delle loro illusioni. E tuttavia, finché questa elaborazione non sarà compiuta, si resterà di fronte al XX secolo come di fronte a un mistero” (R. Dahrendorf, F. Furet, B. Geremek, La democrazia in Europa, a cura di L. Caracciolo, Laterza, Roma-Bari, 1992, p. 58).

Si tratta dunque per lo storico francese di intraprendere una via ben più difficile e assai meno rassicurante nell’interpretazione storiografica, quella linea che da Tocqueville, passando per Constant, giunge fino a Raymond Aron, della quale Furet si sente, a buon diritto, l’ultimo esponente. Sostituire cioè i criteri moralistici dell’egalitarismo giacobino con la logica della complessità, da un lato, e della provvisorietà del giudizio storico, dall’altro. La rivoluzione non è un blocco unitario e omogeneo, va studiata e compresa e non resuscitata; i giudizi storici espressi su questo fenomeno debbono essere suscettibili di cambiamento, mai definitivi ma flessibili e, quindi, provvisori. Si tratta di concetti applicabili non soltanto al caso francese e di ciò si era presto reso conto De Felice, che aveva stabilito con Furet una singolare sintonia umana e storiografica. Se si sostituiscono alla Rivoluzione francese due temi “caldi” della storiografia italiana - fascismo e resistenza, ad esempio - si comprende come Furet e De Felice abbiano colto, tra gli anni Sessanta e Settanta, una serie di punti nodali sui quali la discussione è tuttora aperta. Ovviamente la questione è più generale e la Rivoluzione francese costituisce solo un significativo e illuminante esempio di come la storiografia abbia piegato alle ragioni dell’ideologia quelle della ricostruzione obiettiva dei fatti. Il vero problema, per Furet, è dunque quello dello storico o, comunque, dell’intellettuale, il quale, se “impegnato” tende a costruire “storie edificanti”, finalizzate cioè a una precisa impostazione ideologica; un intellettuale che deve necessariamente scegliere da che parte stare deve possedere il “senso della storia”, la consapevolezza che la storia vada ineluttabilmente verso un obiettivo: il suo racconto storico si inserirà quindi in uno sviluppo armonico, finalizzato, rassicurante ma certamente falso.

Il richiamo ad Aron come modello è il richiamo alla libertà dello studioso: l’intellettuale francese che, pur venendo dalla sinistra, non si preoccupò di collaborare con de Gaulle, di trovarsi vicino alla destra, salvo allontanarsene in occasione della crisi algerina, non risultò mai politicamente classificabile restando “fedele a un’analisi scientifica dei fatti”. Simile, in qualche modo al percorso dello stesso Furet che, dall’iniziale adesione al comunismo, si ritrovò a collaborare con Edgard Faure, personaggio significativo della destra moderata, in un dicastero chiave come quello dell’Educazione nazionale. Non quindi uno storico asettico ed avulso dalla realtà politica e sociale propone Furet, un intellettuale che, in nome dell’obiettività, rinuncia ad agire. Rispondendo a un’intervista nel settembre 1978, lo storico francese chiariva: “Intendiamoci, anch’io sono radicato in un presente, a partire dal quale parlo e scrivo. La differenza tra quello che è il mio presente e quello, per esempio, di uno storico comunista, sta nel fatto che, nel mio caso, mi spinge a disinvestire il passato, anziché sovrapporlo alle situazioni attuali”.

28 settembre 2001

François Furet, Gli occhi della storia, Mondadori, Milano, 2001, pp. 290. Lire 35.000

 

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