Ecco le donne del post femminismo
di Eugenia Roccella


E’ appena uscito in libreria l’ultimo volume dei Quaderni della Fondazione Ideazione, “Dopo il femminismo”, scritto da Eugenia Roccella (106 pagine, lire 10.000). Pubblichiamo qui di seguito il capitolo di introduzione.

Nell’opinione pubblica il femminismo, identificato sia con il più tradizionale movimento emancipazionista sia con il neofemminismo esploso negli anni Settanta, ha vinto tutte le sue battaglie fondamentali. Il bilancio che se ne traccia è in genere largamente positivo, e sfuma nella cultura diffusa del politicamente corretto. I tentativi di restituirne un’immagine minacciosa rimangono decisamente marginali, e molti degli obiettivi politici raggiunti (aborto, nuovo diritto di famiglia, normativa su stupro, violenze e molestie, congedi di maternità e paternità, leggi di parità e così via) sono diventati totem intoccabili, simboli di una raggiunta maturità civile. Contrariamente a quello che è avvenuto per il Sessantotto, che vede ancora oggi interpretazioni opposte a confronto, sul femminismo non c’è più dibattito, non c’è più il calore dello scontro, di passioni e opinioni diverse. Viene da domandarsi se il movimento delle donne non abbia esaurito il suo ciclo vitale: proprio l’apparente unanimità di consensi, sia pure cauti, sembra certificarne lo stato di non pericolosità, di morte apparente o reale. Il femminismo teorico si è chiuso in ristretti circoli intellettuali e accademici, quello politico si è depotenziato, perdendo ogni carica trasgressiva e innovativa, e si è sparso, a piccole dosi, in tutti i gruppi parlamentari e partitici.

Sempre più spesso si assiste a una sfilata di posizioni sostanzialmente identiche quando si tratta di tematiche che riguardano le donne, e a forme di unità trasversale ogni volta che la cronaca produce un caso di plateale parzialità, come per esempio la famosa “sentenza dei jeans”. Il risultato è una ritualità poco incisiva e forse anche irritante per le stesse protagoniste della politica: se l’On. Mussolini e il ministro Bellillo sono arrivate allo scontro fisico in una nota trasmissione televisiva, può darsi che la colpa sia anche della coabitazione forzata nel campo delle tematiche “femminili”, della fastidiosa concordia che le donne di schieramenti contrapposti tendono a esibire su tali questioni. La sensibilità comune, dunque, ha digerito il femminismo, la politica lo ha banalizzato e introiettato, i media continuano a diffonderne una sorta di surrogato di massa. Le conquiste delle donne sembrano perfettamente compatibili, o addirittura funzionali, alla strada imboccata dalla società postindustriale: la politica del main stream, di cui parlano tutti i documenti ufficiali delle organizzazioni femminili internazionali, non incontra ostacoli dichiarati in occidente, se mai quell’opposizione elastica e vischiosa tipica della resistente inerzia del potere, e dei mille “soffitti di vetro” destinati, prima o poi, a infrangersi sotto l’urto.

In tanta serena omogeneità, emergono però segnali inquietanti. A parte qualche grido d’allarme o di dolore lanciato da studiose o da ex militanti, i dati statistici non sono sempre confortanti. La percentuale di donne occupate, in Italia, è praticamente ferma dagli anni Sessanta (circa tre donne su dieci) anche se è cambiata la qualità del lavoro; la presenza delle donne in politica segue oscillazioni ricorrenti, senza mai oltrepassare, però, soglie piuttosto basse; le donne che conquistano posizioni di potere reale restano un’esigua minoranza. Se poi passiamo alle abitudini e ai comportamenti quotidiani, verifichiamo quello che ogni donna italiana sa già, e cioè che il carico di lavoro domestico pesa quasi esclusivamente sulle spalle femminili, anche se si gode del privilegio di un’occupazione fuori di casa; che il lavoro di cura è pochissimo supportato dai servizi sociali; che bambini, disabili e anziani sono ancora in gran parte un problema privato di madri, figlie, sorelle, e che questo privato, nonostante gli slogan, non è mai diventato politico.

Tra i reati, sono in aumento gli scippi (di cui in maggioranza sono vittime le donne) e le violenze sessuali. La prostituzione femminile, la cui domanda, nonostante la rivoluzione dei costumi sessuali, non ha mai subito flessioni, ha acquistato nuovi aspetti di brutalità organizzata, fino a configurarsi in alcuni casi come una forma di schiavitù. L’atteggiamento maschile di protezione e cavalleria, insito nella cultura patriarcale, si è sgretolato di fronte all’idea di eguaglianza tra i sessi, e gli uomini non hanno trovato modelli sostitutivi altrettanto forti, gratificanti e socialmente condivisi. La libertà femminile provoca ancora, nei maschi, disagi profondi e scatena talvolta una rabbiosa e aggressiva volontà di sopraffazione. Per quanto riguarda la riappropriazione del corpo, passaggio essenziale della liberazione della donna, il controllo sulla capacità riproduttiva, ottenuto faticosamente e sempre con grandi margini di ambiguità, sta slittando sempre di più verso la medicalizzazione totale. La manipolazione genetica tende a fare dell’utero una sorta di laboratorio sperimentale, ma la riserva mentale di medici e biologi è che un laboratorio vero e proprio sarà sempre meglio attrezzato, più asettico, più scientifico di un utero, per quanto controllato, monitorato e artificializzato questo possa essere. Inoltre è la stessa immagine del corpo femminile a essere ormai manipolata in modo sostanziale, e cioè costruita seguendo criteri funzionali alle possibilità tecniche della chirurgia plastica e della medicina estetica.

Tracciare un bilancio degli esiti delle lotte femministe, come si vede, non è affatto semplice. Ogni obiettivo raggiunto scopre il fianco, mostra il suo lato in ombra, si rovescia nel proprio contrario. Certo, tutto ciò non accade solo alle conquiste delle donne; gli equilibri sociali non possono che essere instabili e precari, sempre superati dalla dialettica degli eventi. Ma nel caso del femminismo la contraddizione è più evidente, la divaricazione tra apparenza e realtà, tra intenzioni e risultati, più marcata. La spinta femminista di massa si è affievolita fino a spegnersi non perché la forza utopica delle idee si sia scontrata con tragiche verifiche storiche o si sia incanalata nella violenza terrorista, ma perché sembrava in gran parte appagata, sedimentata. In nessun altro campo, in effetti, c’è stata una attività legislativa più aderente alle richieste dell’opinione pubblica, un tentativo così chiaro di mantenere le norme al passo con i rivolgimenti del costume. In un paese paralizzato come il nostro, restio a riforme di sostanza, è sorprendente che si sia ottenuto tanto in così breve tempo. Eppure, serpeggia tra le donne una inconfessata delusione, una sottile percezione di sconfitta.

Si moltiplicano i manuali che ripropongono vecchie regole per sedurre un uomo e farsi sposare, e ottengono uno strepitoso successo di vendita; escono libri su quanto si stesse meglio “prima”, o su come sia meglio, per la propria felicità, chiudere ogni contenzioso coniugale e trasformarsi in mogli sottomesse. Il femminismo è accusato di aver condotto allo sfascio della famiglia, di aver provocato il crollo delle nascite, e una nuova solitudine e povertà femminile. E’ facile ridicolizzare le nostalgie per tempi da “divorzio all’italiana”, in cui esistevano le attenuanti per il delitto d’onore, le differenze retributive, la possibilità di licenziamento in caso di matrimonio e l’obbligo per la moglie di seguire sempre e dovunque il marito; tempi in cui il lavoro delle donne era massacrante, in casa e fuori, in cui il controllo sociale era crudele e la libertà sessuale inesistente. Sarebbe però miope non tenere conto di questa oscura sofferenza femminile, delle confuse o inconsapevoli amarezze del dopo femminismo, proiettate nella mitizzazione di un passato idilliaco, confortante, non conflittuale.

Quello che il femminismo ha prodotto di meglio è lo svincolamento della donna dai modelli obbligati, estraendola dal corpo compatto della cultura patriarcale. Non più elemento fondante di una lingua straniera, a lei preclusa; non più fissata in una alterità che la separa e la oggettivizza. Il femminismo ha sospinto le donne dentro la corrente dell’individualismo di massa e della cultura del narcisismo del secondo Novecento, ha permesso loro di ritrovare la propria singolarità, la proprietà di se stesse, una libertà di scelta mai sperimentata in passato. Ma, nonostante le ansie di liberazione, il risultato concreto ottenuto è stato più che altro una equiparazione al modello individualista maschile. La sorte della differenza di genere sta annegando nel politicamente corretto, nella tutela corporativa delle minoranze (dimenticando che le donne non sono “minoranza”) nella indeterminatezza identitaria. La differenza biologica e culturale è annullata o rimontata a piacere, e il potere di decisione su di sé, conquistato così faticosamente e da così poco tempo esercitato, sembra già in parte sfuggito alle donne, passando nelle mani di entità poco identificate e pochissimo controllate (non più il vecchio, caro patriarcato). La strategia di distruzione dei saperi femminili, della corporalità, della cultura antica delle donne, porta alla distruzione della tradizione, e di tutto ciò che la conserva in vita. E’ una strana guerra, che pare condotta da uno di quei folli antagonisti di James Bond, sprofondati nel delirio di onnipotenza, occupati dal desiderio di dominare il mondo, a modo loro utopisti della modernità: ansiosi di fare piazza pulita di un’umanità borghesuccia e imperfetta, di instaurare una dittatura della scienza grazie a mille stupefacenti protesi tecnologiche e meccanismi di morte automatizzata a cui naturalmente l’eroe sfugge. Il peggior nemico di queste preoccupanti forme di titanismo non è però l’agente 007, ma l’esistenza e la resistenza di utopie diverse, quelle domestiche, quotidiane, nonviolente (eppure eroiche), immaginate e ostinatamente praticate da lungo tempo, e ancora oggi, dalle donne.

I concetti di pari dignità, pari opportunità, sono stati riassorbiti dall’egualitarismo emancipazionista, che propone alle donne un modello maschile da sovrapporre, senza paura di contraddizioni, a quello “femminile”. Il pensiero della differenza ha fatto evaporare la politica, tenendosi lontano dalla possibilità di estrapolare posizioni e contenuti politici praticabili dalla concettualizzazione astratta. La concreta esperienza di nascere donna non viene più guardata come un essenziale punto di partenza, perché l’idea di genere tende a slittare, confondersi, perdere senso, sia culturalmente che biologicamente. Sarebbe necessario, dunque, verificare e aggiornare obiettivi e interpretazioni dati per scontati, soprattutto sul piano politico. Bisogna superare l’attuale situazione di generale appiattimento su stereotipi ingessati, e tenere conto anche delle recenti teorizzazioni del femminismo, mantenendosi però sul terreno della politica.

13 luglio 2001

Eugenia Roccella, Dopo il femminismo, Quaderni di Ideazione, 106 pagine, lire 10.000.

 

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