In difesa di un “bene realistico”

A chi può interessare, nell’Italia odierna, questo brillante tentativo di descrivere i caratteri costitutivi della politica, di spiegarne mezzi e finalità e di illuminare, alla luce dell’esperienza storica, individuale e collettiva, le dinamiche proprie, in ogni condizione e in ogni luogo, dell’azione politica? Sulla politica si è abbattuto, in particolare nel corso dell’ultimo decennio, un pesante discredito, determinato da un complesso di (legittime) ragioni d’ordine storico, ideale e culturale in senso lato. Nel corso del Novecento, la politica, resa assoluta dall’ideologia, ha indubbiamente fallito nella sua pretesa di rifondare l’ordine sociale e la natura umana. La sua aspirazione ad una felicità, ad una eguaglianza e ad una giustizia perfette, la sua ambizione ad occupare ogni sfera vitale ed ogni spazio sociale, si sono rivelate fallaci e pericolose, determinando, come legittima reazione, non solo un rigetto di tutte le dottrine salvifiche e palingenetiche, ma, alla fine, un rifiuto della politica come tale. Ma non è stata solo l’esperienza rovinosa dei totalitarismi a produrre un tale risultato. Molto ha contribuito il modo con cui, nella seconda metà del secolo, è andata evolvendo la politica nei regimi democratico-rappresentativi, caratterizzati da classi politiche sempre più autoreferenziali e staccate dal sentire comune dei cittadini, da partiti invadenti e scarsamente attenti all’interesse generale, da una crescente paralisi decisionale, da un vero e proprio blocco istituzionale, da una ridotta capacità a rappresentare la società nelle sue diverse articolazioni, da una scarsa capacità a gestire le crisi e le sfide poste in essere, specie nel corso degli ultimi quindici-venti anni, dalla cosiddetta globalizzazione.

La storia politica italiana recente, come in parte quella europea, si è così sviluppata all’insegna dell’antipolitica, di una generalizzata diffidenza nei confronti della politica: dei suoi mezzi, delle sue logiche d’azione, delle sue finalità intrinseche e dei suoi attori abituali. Tale diffidenza ha assunto, come è noto, molteplici manifestazioni. Nelle sue forme estreme e più virulente si è presentata con i tratti del qualunquismo, della demagogia e di un ostentato disprezzo nei confronti dei politici di professione e, più in generale, della sfera pubblica. In forme culturalmente più sofisticate essa si è espressa in una crescente richiesta di spoliticizzazione dei processi decisionali e delle procedure di governo, motivata dal bisogno, che sarebbe proprio delle società economicamente e socialmente più avanzate, di affidarsi alla neutralità della tecnica per dare soluzione adeguata ai problemi che le caratterizzano. In tutti questi anni l’antipolitica si è nutrita di retorica sulle virtù della cosiddetta “società civile”, polemicamente contrapposta ad una classe politica giudicata intrinsecamente rapace ed inetta; di inviti ad una politica ora “bella” ora “buona”, quindi sempre più spogliata delle sue attribuzioni fondamentali, che sono nel fondo antagonistico-conflittuali; di polemiche contro il cosiddetto “teatrino della politica”, quasi che possa darsi azione politica al di fuori di una qualche dimensione scenica e, alla lettera, “rappresentativa”; di un approccio moralistico alle problematiche del potere e delle relazioni di autorità; dell’illusione che la vera libertà individuale possa realizzarsi al di fuori delle limitazioni che la politica necessariamente impone ai membri della comunità (oltreché a se stessa). Ne è risultato un circolo perverso: da un lato la politica ha progressivamente perso il suo ruolo civilizzatore, la sua capacità di regolare i conflitti sociali e di mediare tra la diversità degli interessi e delle identità, dall’altro essa si è vista scalzata, in queste su funzioni, da altri centri di potere, spesso privi di qualunque legittimazione appunto politica (la magistratura, le grandi imprese, gli apparati tecnico-burocratici nazionali e sovranazionali).

Il volume di Freund, oltre a costituire una preziosa introduzione alla politica realistica - un antidoto quindi nei confronti della politica ideologica e dell’utopia di un mondo senza conflitti e senza tensioni - rappresenta anche un’appassionata difesa della politica e delle sue ragioni, quindi una critica serrata sia ai teorici della “fine della politica” sia ai fautori della “antipolitica”, difesa tanto più utile e necessaria in una fase storica come l’attuale, segnata proprio, come detto, da una tendenziale subordinazione della sfera politica alla dimensione tecnico-economica. La politica non è, come talvolta si sostiene quasi con rassegnazione, un male necessario, bensì, per dirla con Bernard Crick, un “bene realistico”, al quale nessuna società può rinunciare del tutto senza pagare lo scotto di una progressiva perdita della libertà. C’è chi pensa, nel mondo d’oggi, che sia possibile, e finanche auspicabile, governare le collettività affidandosi unicamente alle competenze tecniche, alla proiezione nella sfera pubblica dei singoli interessi individuali, ad un rapporto senza mediazioni tra classe politica e cittadini, alle pressioni dei gruppi, alla neutralità delle burocrazie, agli automatismi propri di ogni organizzazione complessa, alla retorica delle belle parole, ad una miscela virtuosa di etica universalistica e di spirito degli affari, alla propaganda ed all’immagine dei capi scientificamente veicolate. Ma si tratta si una pericolosa deriva culturale: con l’idea di liberarsi dal peso della politica, si rischia infatti di cadere in forme diverse e ben più pericolose di controllo sociale e di privazione dei diritti di libertà.

In realtà, altro è manifestare un legittimo disagio nei confronti di un modo di concepire la politica, e di farla, personalistico e ideologico, indifferente ai valori e privo di respiro progettuale, assolutistico e tecnicamente inefficace, altro è pensare di poter fare a meno, totalmente, della politica e delle sue regole, per quanto imperfette. E ciò tanto più in società altamente complesse e differenziate come le attuali, alle prese con problemi in larga parte inediti e fonti potenziali di conflitti e di contrasti: il declino del modello politico dello stato-nazione, l’immigrazione dal Terzo mondo, il degrado ambientale, la definizione di nuove regole di convivenza internazionale, la tutela ed il riconoscimento delle nuove soggettività ed identità sociali, il conseguimento di una maggiore equità su scala mondiale, la gestione delle nuove forme di conflitto armato. Chi può pensare, oggi, di trovare a questi problemi una soluzione che non sia, prima che tecnica, innanzitutto politica, ispirata cioè ad un complesso equilibrio di ragioni ideali e di compatibilità economiche, di opzioni etiche e di calcolo degli interessi, di disponibilità tecniche e di valori storici? Ciò che si deve temere realmente è dunque non la politica - da sostituire magari con l’etica o la tecnica - bensì la scomparsa della politica, che per quanto imperfetta, cruda e talvolta ingiusta, rimane pur sempre l’unico strumento attraverso il quale gli uomini, individualmente ed in forma associata, possono vedersi garantita, oltre la libertà, giustizia, benessere e sicurezza.

22 giugno 2001

(tratto dall’introduzione di Alessandro Campi al volume “Che cos’è la politica” di Julien Freund)



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