Il ritorno (necessario) della politica
di Alessandro Campi


Gli ultimi dieci anni della storia politica europea, e italiana in particolare, si sono svolti nel segno dell’antipolitica, vale a dire di una generalizzata diffidenza nei confronti della politica: dei suoi mezzi, delle sue logiche d’azione, delle sue finalità intrinseche e dei suoi attori abituali. Tale diffidenza ha assunto molteplici manifestazioni. Nelle sue forme estreme e più virulente si è presentata con i tratti del qualunquismo, della demagogia e di un ostentato disprezzo nei confronti dei politici di professione. In forme culturalmente più sofisticate, essa si è espressa in una crescente richiesta di spoliticizzazione dei processi decisionali e delle procedure di governo, motivata dal bisogno, che sarebbe proprio delle società economicamente e socialmente più avanzate, di affidarsi alla neutralità della tecnica per dare soluzione adeguata ai problemi che le caratterizzano. In tutti questi anni l’antipolitica si è nutrita di retorica sulle virtù della cosiddetta “società civile”, polemicamente contrapposta ad una classe politica giudicata intrinsecamente rapace e inetta; di inviti ad una politica ora “bella” ora “buona”, quindi sempre più spogliata delle sue attribuzioni fondamentali; di polemiche contro il cosiddetto “teatrino della politica”, quasi che possa darsi azione politica al di fuori di una qualche dimensione scenica e, alla lettera, “rappresentativa”; dell’illusione che la vera libertà individuale possa realizzarsi al di fuori delle limitazioni che la politica necessariamente impone ai membri della comunità (oltreché a se stessa). Ne è risultato un circolo perverso: da un lato la politica ha progressivamente perso il suo ruolo civilizzatore, la sua capacità di regolare i conflitti sociali e di mediare tra la diversità degli interessi e delle identità, dall’altro si è vista scalzata, in queste sue funzioni, da altri centri di potere, spesso privi di qualunque legittimazione appunto politica (la magistratura, le grandi imprese, gli apparati tecnico-burocratici).

Ovviamente, questa avversione su vasta scala nei confronti della politica non è stata né casuale né ingiustificata. E’ stata prodotta da valide ragioni - d’ordine storico, ideale, culturale in senso lato. Nel corso del Novecento, la politica, resa assoluta dall’ideologia, ha indubbiamente fallito nella sua pretesa di rifondare l’ordine sociale e la natura umana. La sua aspirazione a una felicità, a una eguaglianza e a una giustizia perfette, la sua ambizione ad occupare ogni sfera vitale e ogni spazio sociale, si sono rivelate fallaci e pericolose, determinando, come legittima reazione, non solo un rigetto di tutte le dottrine salvifiche e palingenetiche, ma, alla fine, un rifiuto della politica in quanto tale. Ma non è stata solo l’esperienza rovinosa dei totalitarismi a produrre un tale risultato. Molto ha contribuito il modo con cui, nella seconda metà del secolo, è andata evolvendo la politica nei regimi democratico-rappresentativi, caratterizzati da classi politiche sempre più autoreferenziali e staccate dal sentire comune dei cittadini, da partiti invadenti e scarsamente attenti all’interesse generale, da una crescente paralisi decisionale, da un vero e proprio blocco istituzionale, da una ridotta capacità a rappresentare la società nelle sue diverse articolazioni, da una scarsa capacità a gestire le crisi e le sfide poste in essere, specie nel corso degli ultimi quindici-venti anni, dalla modernizzazione.

Sennonché, altro è manifestare un legittimo disagio nei confronti di un modo di concepire la politica personalistico e ideologico, indifferente ai valori e privo di respiro progettuale, assolutistico e tecnicamente inefficace, altro è pensare di poter fare a meno, totalmente, della politica, tanto più in società altamente complesse e differenziate come quelle odierne, alle prese con problemi in larga parte inediti e fonti potenziali di conflitti e di contrasti: il declino del modello politico dello stato-nazione, l’immigrazione dal Terzo Mondo, il degrado ambientale, la definizione di nuove regole di convivenza internazionale, la tutela e il riconoscimento delle nuove soggettività e identità sociali, il conseguimento di una maggiore equità su scala mondiale. Chi può pensare, oggi, di trovare a questi problemi una soluzione che non sia, prima che tecnica, soprattutto politica, ispirata cioè ad un complesso equilibrio di ragioni ideali e di compatibilità economiche, di principi etici e di mezzi tecnici, di scelte programmatiche e di valori storici? Nel lontano 1962 il politologo Bernard Crick ha scritto una appassionata “difesa della politica”, tesa a dimostrare che quest’ultima - definita come “la somma delle azioni pubbliche degli uomini liberi”, come “un’attività sociologica che ha la funzione antropologica di conservare una comunità divenuta troppo complessa perché la sola tradizione o un governo puramente arbitrario possa preservarla senza ricorrere all’uso indebito della coercizione” - è tutt’altro, come talora sostengono i suoi critici e denigratori, che “un male necessario”, bensì “un bene realistico”, al quale nessuna società può rinunciare senza pagarne lo scotto. A distanza di quarant’anni, tale difesa appare degna di essere ripresa e magari rafforzata, con l’obiettivo di porre fine all’illusione - magari espressa in buona fede - dell’antipolitica, che specie in Italia ha trovato, nell’ultimo decennio, così tanti estimatori e sostenitori.

Da questo punto di vista le elezioni del 13 maggio dovrebbero rappresentare - per vincitori e vinti - il ritorno, quanto mai necessario, della politica e delle sue regole, per quanto imperfette, e la fine, quindi, dell’equivoco secondo il quale è possibile governare un paese affidandosi unicamente alla buona volontà, alle competenze tecniche, a un rapporto virtuoso e senza mediazioni tra elettori ed eletti, agli umori ed alle idiosincrasie dei singoli, alle pressioni dei gruppi, magari all’improvvisazione ed all’occasionalismo. Se si escludono coloro che hanno strumentalmente (e colpevolmente) sostenuto la delegittimazione della politica - salvo accorgersi poi quanto pericolosamente improduttiva sia la strada dell’antipolitica se perseguita sino in fondo (è il caso ad esempio di settori consistenti della sinistra italiana) - il discorso che stiamo facendo riguarda soprattutto, come è facile capire, Berlusconi e Forza Italia, la cui fortunata ascesa politica molto ha dovuto al fatto di essere, il primo, un non politico e un imprenditore di successo, e la seconda, una forza nata sull’onda del discredito che ha colpito, a causa della corruzione, la classe politica della cosiddetta Prima Repubblica. E’ forse giunto il momento, per entrambi, di dichiarare chiusa la fase dell’antipolitica e di accettare come necessario il ritorno alla politica e alle sue logiche - cioè la mediazione, la gestione dei conflitti, la scelta tra opzioni non compatibili. Il che non significa, beninteso, accettare o riproporre modalità ed esperienze, modi di concepire la politica e di farla rivelatisi storicamente perdenti o superati.

In questo quadro, anche l’aspra campagna elettorale che ha visto scontarsi Berlusconi e Rutelli (e le rispettive coalizioni) va vista come il preludio ad un positivo cambiamento di scenario. Lo scontro politico è stato in effetti acceso e duro, segno che nel paese è esistita ed esiste una reale (e vitale) contrapposizione di visioni e strategie di tipo appunto politica. In politica - e sta in ciò la sua vitalità storica - non si deve temere di avere nemici (o, se si preferisce, avversari irriducibili), interessi (individuali e collettivi) da difendere, obiettivi da raggiungere (a scapito ovviamente di altri), “clientele” e seguaci da compensare, ideali da far valere, un disegno storico da perseguire. Si deve solo temere la mancanza di uno qualunque di questi elementi.

22 giugno 2001

acampi@ideazione.com 

(da Ideazione 3-2001, maggio-giugno)



stampa l'articolo