Un Holden italiano a ritmo di rock 
di Federico Zamboni

Vediamo un po': quelli che hanno avuto un'infanzia & un'adolescenza & una giovinezza in cui tutto è filato liscio, sono pregati di andarsene. Se si ricordano bene, se davvero hanno planato su quegli anni come ragazzini sullo scivolo, è chiaro che non capirebbero una virgola di ciò che racconta 'sta bella storia rockettara che è "Fabbricato in Italia"; se invece si ricordano male (talmente male che trattasi di rimozione - e fatevi un salto dallo psicanalista, una di queste sere) vuol dire che forse avrebbero potuto capire a suo tempo, quando le ferite erano fresche e i lividi gonfi, ma oggi non più: oggi che, con ogni probabilità, si sono lasciati mettere il guinzaglio dalla società e lasciano che le loro vite si dissolvano così, senza infamia e senza lode, inchiodati alle regole e regolette del loro sciagurato disincanto, sprofondati nella temperatura costante, rassicurante, terrificante, di quest'epoca telecomandata. E ancora: non solo loro se ne devono andare. Sono pregati di filarsela anche quelli lì tutti pulitini e perbene, quelli "che il rock è tutto uguale", e "sono tutti drogati", e "ma che razza di generazione" e "dove andremo a finire" e "cosa tocca vedere". E…

Vediamo un po'. Vediamo un po' chi siamo rimasti - e quanti. Mmh. Nemmeno tanto pochi, tutto sommato. Facce di età variabile (parecchio variabile), vestiti diversi (estremamente diversi), storie differenti (se no, che gusto c'è?). Ma a parte l'età, e i vestiti, e le storie, abbiamo tutti quanti l'aria di avere alle spalle qualche battaglia comune, lungo la strada, e di avere passato la nostra razione di guai, prevalentemente di giorno, e goduto la nostre dose di spasso, prevalentemente di notte. Se io dicessi Morrison, mi chiedereste subito se voglio dire Jim, l'americano, oppure Van, l'irlandese. Se voi diceste Collins, vi chiederei subito se volete dire Phil (quel furbastro) oppure Judy (occhi blu della "Suite: Judy blue eyes" di Stephen Stills) oppure quel tale Collins di cui non ricordo più il nome ma che, long time ago, suonava con i Lynyrd Skynyrd del compianto Ronnie Van Zant. Poi, magari, per scaldarci un po' apriremmo la discussione su questo e su quello: sui Genesis del prima e del dopo Peter Gabriel, sulla furia di Hendrix e sulla calma di Clapton, sul rock istintivo alla Bruce Springsteen e su quello intellettuale alla Robert Fripp. Infine, ma assai prima che la birra finisca, ci metteremmo comodi e io, oplà, tirerei fuori il suddetto libro rockettaro. E…

… e insomma parla di un tizio che si chiama Nano. Cioè: lo chiamano Nano perché da piccolo era più piccolo della media e si sa come vanno 'ste cose. Vanno che ti becchi il soprannome e poi non te lo levi più, manco se diventi il più alto della combriccola. Vabbé. Nano è il primogenito di una coppia che sta a Roma ma arriva da un imprecisato paesello del Sud: il padre è quasi sempre via per lavoro, a piazzare tubature in qualche posto dell'Africa, la madre è una donnetta apprensiva con il terrore delle malattie. E in più c'è la nonna, che come tante nonne è molto affettuosa, abbastanza invadente, un pochino saggia, e un pochino rompicoglioni. Per il resto, pochi soldi, tanti pregiudizi. E a scandire (strascicare) il tutto in quel dialetto sgangherato che dice cose come "arricurdatevilla" per "ricordatevelo" e sta alla lingua italiana come una casetta abusiva, e tirata su alla meno peggio, al Duomo di Firenze: insomma, l'ideale per crescere con addosso (dentro) l'intero repertorio dei peggiori complessi di inferiorità, l'ideale per passare lunghissimi giorni & mesi & anni a girovagare tra le proprie difficoltà di crescita (sopravvivenza) tentando di venire a capo di se stessi e degli altri, cercando di trovare un po' di posto e un po' di gioia e un po' di senso. In questo cazzo di mondo.

E certo non è mica facile, quando il copione è ancora tutto da scrivere e i soli palcoscenici a disposizione sono il condominio ultrapopolare della periferia romana, durante l'anno scolastico, e il paese d'origine dei tuoi, quando finalmente (finalmente?) arriva l'estate. E se il mondo fosse tutto qui? Se davvero il destino non avesse nient'altro da offrire? Nano arranca e annaspa, incespica e ruzzola, accumula sbagli e inanella sconfitte. I coetanei che ha intorno sono più rivali che amici. Gli adulti più giudici che guide. Le ragazze, quando viene il momento, un ulteriore e inestricabile impiccio. E la scuola, uffa, la solita, colossale perdita di tempo, appresso a un sapere illimitato che però non si incrocia mai con la vita. Quello che ci vorrebbe, invece, è qualcosa che ti devi cercare da solo. Qualcosa che indichi una direzione, e che sia allo stesso tempo abbastanza lontano da diventare una meta definitiva e abbastanza vicino, però, da iniziare subito a riempirti il tempo & la mente & il cuore. Qualcosa, per esempio, che bastano quattro colpi per cominciare e quattro lettere per scriverla. Qualcosa che un tempo se ne stava racchiuso in certi oggetti rotondi di plastica nera, che bastava un nonnulla per costellare di graffi & sfrigolamenti & fruscii.

Rocco Fortunato è bravo: racconta con quel genere di facilità che in Italia continua ad essere merce rara, aggirandosi tra i personaggi e le situazioni con uno sguardo divertito che si trasmette, tale e quale a una fragranza leggera, nel momento stesso in cui ci si avvicina. Quale che sia stata la sua storia reale, lungo lo stesso arco di tempo (da zero a vent'anni) che è narrato nel romanzo, l'impressione è che alla fine i pezzi fondamentali della sua storia siano andati a posto e i conti, se non altro quelli principali, abbiano trovato una quadratura quantomeno decente. Nel libro, sia Nano che il suo migliore amico ne sopportano di tutti i colori, ma alla fine, in un modo o nell'altro, ne vengono a capo. E se è vero che l'adolescenza rimane un periodo dannatamente insidioso, in cui le illusioni su se stessi e sugli altri vengono giù come birilli, e ci arrivano addosso come macigni, è altrettanto vero che non esiste altra possibilità che andare avanti a oltranza: fino ad imparare che, per orientarsi, il cielo e le stelle aiutano parecchio - ma non sono affatto indispensabili.

20 marzo 2001

zambonifed@usa.net

Rocco Fortunato, Fabbricato in Italia, Fazi Editore, Roma 2000, 277 pagine, lire 25.000


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