Allan Bloom, un ateniese a Chicago
di Alessandro Campi


Considerato negli Stati Uniti come uno dei più brillanti intellettuali del secondo dopoguerra, erede spirituale di Leo Strauss ed animatore, presso l'Università di Chicago, del leggendario Committee on Social Thought, roccaforte dell'intellighentsia anti-liberal statunitense, giudicato in come una straordinaria personalità intellettuale, coltissimo esegeta e traduttore dei grandi classici del pensiero politico e della letteratura occidentali (da Platone a Shakespeare a Rousseau), in Italia Allan Bloom è un perfetto sconosciuto, sebbene la sua opera più importante e famosa - quel The Closing of the American Mind che nel 1987 ha messo lucidamente a nudo le contraddizioni dell'educazione progressista improntata ai canoni del "politicamente corretto" - sia stata prontamente tradotta anche nel nostro paese, nel 1988, dall'editore Frassinelli, senza tuttavia suscitare un'adeguata eco critica, nemmeno lontanamente paragonabile al clamore ed alle polemiche che essa ha invece suscitato negli Stati Uniti. E' capitato in Italia, talvolta, di vedere confondere il suo nome con quello del grande critico letterario Harold Bloom, autore nel 1994 del fortunato The Western Canon e nemico anch'egli, come il quasi omonimo Allan, del cultural criticism e della "cultura del risentimento" dominanti da più di un decennio nei campus statunitensi.

Di Bloom - di Allan Bloom - si è da noi un po' parlato nella primavera-estate del 2000, in occasione dell'uscita dell'ultimo romanzo del premio Nobel Saul Bellow, Ravelstein, protagonista del quale, con il nome appunto di Abe Ravelstein, era proprio quest'eccentrico filosofo della politica, morto nel 1992 e legato a Bellow, per oltre un decennio, da un intenso rapporto di amicizia e di complicità personali nonché da una stretta relazione intellettuale, con Bloom, più giovane di circa vent'anni rispetto allo scrittore, nei panni del maestro, e Bellow in quelli dell'allievo e del confidente. Di quello strano libro, una vera e propria biografia romanzata dedicata alla consacrazione postuma di un accademico di rango, colpì purtroppo, più che il racconto di una curiosa avventura intellettuale e la descrizione di uno dei più originali ed influenti circoli culturali statunitensi, quello degli "straussiani", l'outing sull'omosessualità di Bloom e sulla sua morte, sino a quel momento rimasta avvolta da riserbo, per Aids. Lo scandalo ed il disappunto, quando non la curiosità morbosa, generati in molti dalla mancanza di tatto di Bellow impedirono, come sarebbe stato ovvio, che l'attenzione si focalizzasse sulla personalità intellettuale e sulle idee di questo esemplare studioso d'origine ebrea, nato a Indianapolis nel 1931, a lungo docente nei più prestigiosi atenei statunitensi (Yale, Cornell, Chicago), traduttore in lingua inglese della Repubblica di Platone e dell'Emile di Rousseau, maestro e confidente dei nomi più in vista del conservatorismo statunitense (da William Kristol a Francis Fukuyama, da Samuel Huntington a Harvey Mansfield).

Spiegare, in poche parole, chi è stato Allan Bloom è pressoché impossibile. Altrettanto riassumerne le idee e le posizioni. Le testimonianze di coloro che lo hanno conosciuto e frequentato insistono, prima che sulle idee, sullo stile e sul modo di intendere l'esistenza ed il lavoro intellettuale tipici di Bloom. Amava, sulla scia di Strauss, i classici del pensiero politico-sociale (Platone, Aristotele, Machiavelli, Hobbes, Spinoza, Rousseau, Nietzsche), chiavi a suo giudizio indispensabili per penetrare i tormenti e le contraddizioni dell'uomo contemporaneo e per conseguire un sapere autentico; amava, da competente, la musica classica, per l'ascolto della quale (in particolare i venerati Bach, Händel, Haydn e Mozart) non lesinava nell'acquisto delle più moderne e costose apparecchiature; amava le grandi capitali culturali (New York, Parigi, Roma, Tokio, Firenze, Toronto, Chicago), quindi la dimensione della civiltà urbana e l'arte tipicamente cittadina della conversazione, diretta o telefonica che fosse; amava l'eccentricità (riceveva in kimono nel suo appartamento al dodicesimo piano in Dorchester Avenue), l'eleganza, la raffinatezza, il gusto, le amicizie virili e disinteressate (come appunto quella con Bellow), il sublime in tutte le sue forme; amava insegnare e misurarsi intellettualmente con gli studenti, come dimostrano i suoi seminari affollati e sempre stimolanti; amava, da americano colto e sensibile, l'Europa e la sua cultura, in particolare quella francese; amava infine la vita, al punto da non aver mai rinunciato a nulla di sé ed al suo particolare modo d'essere nemmeno nei lunghi mesi della malattia, affrontata con singolare indifferenza.

Un uomo così brillante e raffinato, così sensibile ed eccentrico, la cui maturità intellettuale ha coinciso con gli anni post-contestazione studentesca e quindi con l'inizio del lento degrado del sistema educativo universitario, ha avuto, come è ovvio, accanto a tanti amori, avversioni altrettanto tenaci: la deriva nichilista della filosofia contemporanea (impregnata di decostruzionismo, heideggerismo e neo-esistenzialismo), il relativismo democratico, il culto ipertrofico delle minoranze, l'uso e la moda dei linguaggi cosiddetti "emancipativi", la svalorizzazione della ragione a vantaggio di una effimera creatività, l'istinto da tabula rasa dei neo-rousseauiani della cattedra, le introversioni psicanalitiche e le nevrosi di Woody Allen (di tanto inferiore alla schiettezza comica dei fratelli Marx), l'ipertrofia dell'"io" e la tendenza a psicologizzare ogni comportamento sociale, la rinuncia all'eros a favore dei sentimenti e di un debole egualitarismo sessuale.

La sua opera più importante e famosa, scritta su istigazione di Bellow, è stata, come accennato, The Closing of the American Mind, un best seller tradotto in tutto il mondo, paragonabile come forza polemica all'Oppio degli intellettuali di Aron. Quest'ultimo, negli anni Cinquanta, aveva svolto una critica demolitrice della sinistra rivoluzionaria intellettuale e dei suoi miti (il proletariato, il senso della storia, la rivoluzione, l'ottimismo politico). Circa trent'anni dopo, Bloom ha preso di mira i cortocircuiti mentali della sinistra progressista universitaria, votatasi al relativismo, all'ideologia del multiculturalismo, ad un uso "creativo" della cultura, al conformismo intellettualmente deprimente del "politicamente corretto". 

Cosa può interessarci di Bloom a circa dieci anni dalla morte? Innanzitutto il suo stile, così difforme da quello dominante nella sfera intellettuale odierna, sempre più povera di maestri e di personalità capaci di affermare, in maniera argomentata, un punto di vista autonomo, magari sgradito o difforme rispetto al senso comune. Poi l'indicazione secondo cui è attraverso il sistema educativo - cioè nelle modalità di organizzazione del sapere su basi di massa - che a) definisce il successo o la decadenza di un paese, b) si plasmano le anime delle nuove generazioni e c) si fissano e si trasmettono il linguaggio ed il codice di valori (estetici, morali e politici) dominanti in una certa epoca storica. Detto altrimenti, la scuola, l'università, nelle odierne guerre culturali - e conseguentemente anche politiche - sono sempre in prima linea. Cosa che non bisognerebbe dimenticare nell'Italia di oggi, nella quale si è da poco avviato un radicale processo di ristrutturazione dell'insegnamento - dalla scuola di base all'università - processo del quale, per chi sappia coglierli, appaiono sin troppo evidenti, di là dalla generica premessa tecnica secondo cui occorre rendere la scuola più funzionale alle esigenze del mercato del lavoro ed all'evoluzione sociale, i reali criteri ispiratori, culturali ed ideologici.

20 marzo 2001

campi@assind.perugia.it

(estratto da Ideazione 2-2001, marzo-aprile)


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