Arte e politica. Il tesoro dimenticato
di Cristiana Vivenzio

“L’interesse per l’arte italiana finisce con Tiepolo”, affermò il soprintendente di Firenze, Antonio Paolucci, quando ricopriva l’incarico di ministro “tecnico” dei Beni culturali. La sua uscita all’epoca provocò, com’è facile prevedere, un vespaio di proteste, la reazione di coloro che rivendicavano un interesse nei confronti dell’arte italiana, anche nei secoli successivi all’opera del grande pittore veneziano. “Ma come? Allora, dopo il Settecento non è più successo nulla d’importante in Italia?” “E l’Ottocento? Vogliamo forse assegnarlo soltanto ai francesi?” “Il Novecento? Come fa Paolucci a saltare i futuristi e De Chirico?” “Che cos’altro si vuol dire: che adesso c’è il deserto?”. Un’affermazione improvvisata e forse poco felice quella del soprintendente fiorentino. Perché, non poche sono le stelle che brillano nel nostro Ottocento, rischiarato già all’inizio dalla fama di Canova e poi per tutto il suo corso punteggiato da artisti di tutto rispetto.

E poi: come si può saltare il Futurismo? Vero è, ed eccoci al dunque, che la nostra arte contemporanea si trova ai margini dell’interesse della critica e del collezionismo. Anche se qualcosa sta cambiando, dal momento che le italian sale, le vendite all’asta di arte moderna e contemporanea italiana, incontrano a Londra – e non solo – una crescente partecipazione di pubblico straniero. Ma se andiamo a veder bene, e vogliamo sintetizzare, sono pochi gli artisti italiani del primo e del secondo Novecento che oggi hanno mercato mondiale e attraggono studi critici. Per la prima parte del secolo scorso troviamo nei vertici delle classifiche di prezzo e di gradimento i futuristi della prima ondata, ormai rarissimi quasi tutti “catturati” da grandi collezioni private o musei: e cioè Boccioni, Balla, Severini... Alla stessa quota, e talvolta più su, incontriamo Giorgio de Chirico, ma per i quadri del periodo “metafisico”. Quanto agli artisti attivi nella seconda metà del Novecento, non sono molti quelli che godono di fama planetaria: Fontana, Burri, Marino Marini avanti tutti.

Abbiamo avuto grandi artisti, e ancora ne abbiamo, ma scontiamo una marginalità che è determinata da due principali fattori: da una parte la caduta in secondo piano dell’Europa, dopo che il centro dell’arte nel dopoguerra si spostò da Parigi a New York; dall’altra, per parlare nello specifico dell’Italia, scontiamo l’assenza prolungata di una politica di valorizzazione della nostra creatività contemporanea. E questa mancata valorizzazione risulta ancor più penalizzante se si considera che la supremazia americana tuttora in atto è stata raggiunta non soltanto grazie al valore degli artisti statunitensi degli anni Cinquanta ma altresì grazie all’impegno politico e finanziario del governo statunitense. È noto infatti che già Roosevelt creò tra la fine degli anni Trenta e l’inizio del Quaranta un organismo di finanziamento e di direzione della produzione artistica, ma è anche risaputo – ed è comprovato da fonti documentarie – che il Dipartimento di Stato e la stessa Cia s’impegnarono per la diffusione della cultura e dell’arte Usa in Europa, in contrasto con la penetrazione comunista durante la Guerra Fredda: tanto che nella Biennale di Venezia del ’64, che premiò Rauschenberg, vi fu senz’altro anche lo zampino dell’intelligence statunitense.

È invece debole – quando non inesistente – il sostegno che l’Italia per anni ha dato alla sua arte contemporanea per renderla conosciuta all’estero. Spesso sono stati messi in mostra artisti di secondo e terz’ordine, in primo luogo soltanto perché organici a forze politiche o a nomenclature burocratiche, spesso avviati grazie a corsie preferenziali per l’assenza di personale competente in uffici competenti. Come quando, nel passato, un ministro degli Esteri affidò la curatela di esposizioni importanti di opere del nostro Novecento – realizzate in capitali straniere e in occasione di visite del presidente della Repubblica – a non addetti ai lavori, talvolta a semplici galleristi, con la conseguenza che su quelle mostre fu riversata una modesta attenzione della critica locale, attraversata per giunta dal sospetto che fossero state esposte opere di non comprovata autenticità.

In realtà, mentre la cultura artistica inglese, spagnola, tedesca e francese sono sempre state sostenute da strutture pubbliche di collaudato prestigio (si pensi al British Council, all’Istituto Cervantes, al Goethe Institut o alla romana accademia di Francia) la struttura che dovrebbe portare all’estero il nostro contemporaneo è costituita dalle reti degli Istituti Italiani di Cultura, i quali, però, scontano da tempo alcuni handicap: in primo luogo, quello di disporre sostanzialmente soltanto dei fondi per la gestione, spesso trovandosi nell’impossibilità o nell’incapacità di coinvolgere risorse locali; in secondo luogo, per la presenza di personale organico che putroppo spesso non possiede, almeno in buona parte dei casi, il know how più adatto per assolvere le funzioni che è chiamato a svolgere in questo specifico settore, godendo di una autonomia tale, però, da poter scegliere conferenzieri o artisti secondo criteri spesso occasioni e personali.
Nel complesso, siamo un paese così stracarico d’arte antica e moderna e così permeato di classicismo che, da sempre, accogliamo il nuovo, dunque in contemporaneo, con ritardo e sospetto. Filippo Tommaso Marinetti riuscì a far entrare i suoi artisti nelle Biennali di Venezia e nelle Quadriennali di Roma solo grazie all’ascolto che trovava ogni volta presso Mussolini; ed era già da molti anni una personalità molto nota in tutto il mondo quando un professore di scuola protestò presso l’Accademia d’Italia perché l’accademico Marinetti scriveva articoli sul Giornale d’Italia omettendo le virgole. E la situazione non è cambiata nel secondo dopoguerra.

L’artista italiano oggi più pagato nel mondo – Lucio Fontana, scomparso nel ’68 – le cui opere spesso superano anche i due miliardi delle vecchie lire, venne a lungo scherzosamente sottovalutato per i suoi “tagli”. Per Alberto Burri vi furono addirittura interrogazioni e interpellanze in Parlamento al tempo della sua prima mostra alla Galleria d’Arte Contemporanea, a Roma, poiché scandalizzavano i suoi “sacchi”, alcuni dei quali, a loro volta possono ognuno superare il miliardo delle vecchie lire.
Sull’arte italiana pesa, insomma, la lunga eredità di un’inadeguata e asfittica politica per il contemporaneo ed essa è, ancora oggi, un aspetto di quella politica per la cultura alla quale l’Italia – che pure in prospettiva ha nella cultura il suo “petrolio” – destina risorse (ancora) largamente insufficienti. E qui va citato un celebre dato, eloquente più di tutte le considerazioni. Destiniamo, infatti, al ministero per i Beni e le Attività culturali meno dello 0,18 del Pil quando invece gli altri paesi a noi paragonabili destinano allo stesso comparto l’1 per cento: e cioè 5 volte di più, come Giuliano Urbani fece notare nell’assumere l’incarico di ministro. Bisogna riconoscere che egli, nonostante il rigore della scorsa finanziaria, è riuscito ad assicurare al suo ministero qualcosina in più: ancora però briciole rispetto alla portata delle necessità. Che purtroppo non viene percepita in tutta la sua importanza, facendo così intendere di ritenere cosa superflua l’aumento di spesa per la cultura, se non la spesa stessa. E si continua a ripetere che l’Italia (dato non controllato, forse inventariato ma comunque rappresentativo per eccesso di una realtà vera) ha nei suoi confini il 60 per cento del patrimonio storico archeologico artistico del mondo!

Dati e statistiche alla mano, l’interesse dei cittadini per l’arte contemporanea, anche il più recente, è invece un fenomeno evidente, misurato dall’influenza di mostre, dalla galassia delle pubblicazioni, dallo statuto che quest’ambito detiene come produttore di senso. Ma ciò contrasta col dato secondo il quale – ed è vero le nostre pubbliche raccolte d’arte, a cominciare dalla Galleria nazionale d’Arte moderna, di Roma, hanno vistose lacune nelle loro collezioni perché, soprattutto negli anni Settanta e Ottanta la politica della lesina ha impedito gli acquisti di opere: che allora erano ancora possibili e oggi sono impossibili a causa dei prezzi proibitivi assunti dalle opere degli artisti – soprattutto stranieri – adesso famosi. Alcune grandi città – come Napoli, amministrata dal centro-sinistra pressoché ininterrottamente dal 1975 – non hanno, ad oggi, neppure una Galleria d’Arte moderna e contemporanea.

Tuttavia il centro-sinistra – prima con Veltroni ministro dei Beni culturali e poi con la Melandri che gli succedette – senza aprezzabilmente modificare il dato di fondo (cioè la troppo microscopica parte di Pil destinata alla Cultura) seppe mettere a segno qualche piccolo risultato che parve gigantesco nella comunicazione. Fu varata un’estrazione speciale settimanale del Lotto, i cui proventi, in parte, furono destinati ai Beni culturali (l’Inghilterra sperimentava ciò da decenni con la British Lottery). Fu varato il progetto per la Galleria d’Arte contemporanea di Roma (veramente, Centro per le Arti Contemporanee) firmato dall’architetta iracheno-inglese Zaha Adid (pronto nel dicembre 2005) e fu istituita presso il ministero la Darc, Direzione per l’Arte Contemporanea e l’Architettura: Direzione che con gran clamore fu dotata di otto milioni d’euro l’anno per acquisti di opere contemporanee. Una cifra troppo esigua per poter aquistare altro se non opere di artisti di terza fila. Basta pensare che un quadro di Jasper Johns o di Willem De Kooning sono costati all’asta rispettivamente 10 milioni di euro e 13 milioni di euro (e sono artisti della scuola di New York, anni Cinquanta, che non sono rappresentati dai nostri musei...). In queste difficoltà generali, silenziosamente sta oggi lavorando Giuliano Urbani, modellando una ristrutturazione “leggera” del ministero per tentare di ridurre il surDaily di burocrazia introdotto dalle riforme Veltroni e Melandri (è stato annunciato che sarà eliminato il “soprintente regionale”, funzionario statale che finiva fatalmente in attrito coi suoi colleghi soprintendenti tradizionali (all’Archeologia, ai Beni architettonici, ai Beni museali). Anche l’arte italiana sollecita le sue riforme.

16 gennaio 2004

(da Ideazione 5-2203, settembre-ottobre)
 
stampa l'articolo