Viaggio in Ita(g)lia
di Paolo Priolo
La storia della censura cinematografica nel nostro Paese è lunga,
articolata e, per molti versi, grottesca. Lo dimostra Alfredo
Baldi nel suo “Schermi proibiti – La censura in Italia:
1947-1988”, offrendo ai lettori un florilegio dei tagli operati
dalle commissioni di revisione su 462 film (non solo italiani) tra
il 1947 e il 1988. Tagli ordinati cronologicamente, descritti e
spesso illustrati attraverso la riproduzione dei fotogrammi sotto
accusa. La selezione dei titoli passati sotto le forbici dei
revisori offerta da Baldi, parziale ma più che rappresentativa, è
preceduta da una dettagliata ricognizione storica che ripercorre
le tappe fondamentali di un percorso – quello della censura su
grande schermo – spesso tortuoso, soggetto a codici di condotta
farisaici e resistenti ai mutamenti, totalmente inadeguati ad
interpretare le evoluzioni del (buon) costume e del comune senso
del pudore.
Tutto cominciò nel lontano 1907, con un breve filmato che
raffigurava i dettagli di un’operazione chirurgica, considerato
sconveniente dall’allora ministro dell’Interno Giovanni Giolitti.
La sua raccomandazione alle autorità affinché vigilassero
maggiormente sul cinematografo conteneva già, in nuce, le future
disposizioni sulla revisione preventiva obbligatoria delle
pellicole e sulle categorie di spettacoli a cui andava impedita la
circolazione. Disposizioni che saranno alla base della prima
normativa sulla censura: la legge 25 giugno 1913, n. 785, più nota
come legge Facta (dal nome del suo promotore, ministro delle
Finanze del quarto governo Giolitti). Un anno dopo, nel
regolamento per l’applicazione della legge (il regio decreto n.
532 approvato il 31 maggio 1914), si definivano i tipi di
spettacolo da interdire al pubblico: quelli offensivi della
morale, del buon costume, del decoro nazionale e delle
istituzioni, gli spettacoli che presentavano scene crudeli e
situazioni che potessero incentivare al delitto (una casistica
rimasta praticamente invariata fino al 1962).
Con l’avvento del fascismo, attraverso un nuovo regolamento di
esecuzione della vecchia legge Facta (il regio decreto 24
settembre 1923), venivano attuate anche limitazioni alla
possibilità di esportare film sui mercati esteri e si rendeva
obbligatorio l’esame preventivo del copione (che si aggiungeva a
quello della pellicola). La revisione preventiva obbligatoria
della sceneggiatura rimase in vigore fino al 1947, anno in cui
veniva approvata, dall’Assemblea Costituente, la legge n. 379 per
la disciplina dell’ordinamento della cinematografia, che rendeva
facoltativo il vaglio dei copioni. Ma era solo un apparente
allentamento dei controlli. In realtà, con i governi democristiani
cominciava una stagione di tagli dissennati operati da revisori
sessuofobici e baciapile, che si scagliavano contro lungometraggi,
cinegiornali, documentari e pubblicità.
Erano gli anni degli ammonimenti di Andreotti a “Umberto D.”
(1952) di Vittorio De Sica, delle amputazioni a “Gli eroi della
domenica” (1952) di Mario Camerini, delle innumerevoli sforbiciate
a “Totò e Carolina” (1953) di Mario Monicelli, degli scandali
prodotti da capolavori come “La dolce vita” (1960) di Federico
Fellini e “Rocco e i suoi fratelli” (1960) di Luchino Visconti.
Gli anni delle mutilazioni e degli assurdi sequestri di “Dolci
inganni” (1960) di Alberto Lattuada e “La giornata balorda” (1960)
di Mauro Bolognini, voluti da Carmelo Spagnuolo e Pietro Trombi, i
famigerati magistrati bianchi. Poi venne la legge n. 161 del 29
aprile 1962, tuttora vigente, che abbandonava il divieto unico ai
minori di 16 anni per quello, duplice, ai minori di 14 e 18 anni.
Una legge che modificava in senso migliorativo la composizione
delle commissioni, ma salvava la facoltà di non rilasciare il
nulla osta di circolazione alla pellicola, di sequestrarla e di
mandarla al rogo: è quanto accadeva, vergognosamente, a “Ultimo
tango a Parigi” (1972) di Bernardo Bertolucci. L’ultimo episodio
di foga censoria risale al 1998, quando “Totò che visse due volte”
di Ciprì e Maresco fu costretto a subire in un primo tempo la
mancata concessione del nulla osta e, in seguito, il sequestro per
vilipendio della religione. Un fatto che motivò Walter Veltroni,
al tempo ministro con delega per lo Spettacolo, a presentare un
disegno di legge per abolire la possibilità di negare il visto per
l’uscita nelle sale. Una proposta caduta nell’oblio.
Ora il testimone è passato al ministero guidato da Giuliano
Urbani, incaricato di rivedere la normativa sulla censura
cinematografica nella linea di una maggior tutela dei minori e
della libertà artistica. Vedremo. Una revisione che, per essere
completa, dovrà affrontare anche i nodi legati alla legge Mammì
del 6 agosto 1990 – sulla disciplina del sistema radiotelevisivo
–, tralasciata da Alfredo Baldi, che interrompe la sua indagine al
1988. Legge che vieta a qualsiasi ora la trasmissione integrale di
film vietati ai minori di 18 anni e confina dopo le 22.30 quelli
vietati ai minori di 14, obbligando, di fatto, i produttori a fare
qualsiasi cosa (tagli alla pellicola e non solo) pur di ottenere
dalle commissioni il visto “Per tutti”: ovvero, la garanzia di
poter coprire ogni fascia oraria (anche la prima serata,
ambitissima dagli inserzionisti pubblicitari) e quindi di cedere i
diritti televisivi della propria opera a un prezzo molto più
elevato. Da qui la recente, inspiegabile assenza di divieti per
film violenti e non adatti ai più piccoli come “Seven” (1995),
“L’uomo senza ombra” (2000), “Hannibal” (2000) e “Gangs of New
York” (2002). Pronti per il prime time televisivo. Peccato, però,
che classici come “Signore & Signori” (1965) di Pietro Germi o “La
grande abbuffata” (1973) di Marco Ferreri, per fare solo due
esempi di film bollati all’epoca con il divieto ai minori di 18
anni, non vengano onorati di un passaggio in televisione, se non
falcidiati.
19 dicembre 2003
Alfredo Baldi, Schermi proibiti. La censura in Italia:
1947-1988, Marsilio, Venezia, 2003, pp. 221, € 18.
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