Rapsodia… in brutto
di Vittorio Mathieu

Ecologicamente Anacleto Verrecchia si è formato facendo il custode del Parco del Gran Paradiso; culturalmente, leggendo gli aforismi e le lettere di Georg Christoph Lichtenberg, l’eretico dello spirito tedesco, di cui l’anno scorso Verrecchia ha pubblicato per la Bur una vasta scelta, preceduta da un saggio introduttivo che rielabora il suo primo e fondamentale libro su Lichtenberg nel 1969. E’ curioso: la bruttezza è una delle doti rilevate più di frequente dal Verrecchia in questa Rapsodia. Bruttezza, però, per lo più maschile: Mozart era brutto, Francesco Giuseppe era brutto, Radetzky pure e così via. Ciò che quasi tutte le donne di Verrecchia hanno in comune coi maschi, però, è l’ “insaziabilità sessuale”, che già caratterizzava Lichtenberg (brutto e gobbo ovviamente), ma che diviene un fenomeno da manuale nel viennese Arthur Schnitzler. Se non avesse avuto il dono di farsi leggere grazie al suo stile naturale, colloquiale senza posare a vernacolare, il destino di Verrecchia sarebbe stato di diventare un erudito. Ma gli ambienti accademici italiani, non sopportano volentieri un ricercatore che, oltre a cercare, trova, e oltre a trovare sappia scrivere di quel che ha trovato. Sicché a Verrecchia la carriera accademica era preclusa.

A sua volta lui non nascose mai il suo sarcasmo verso gli ambienti accademici. Anzi, verso tutti gli ambienti: filosofici, ecclesiastici, nobiliari, diplomatici, commerciali. L’inevitabilità che il senatus sia mala bestia non gli impedisce di trovare fra i singoli senatori molti boni viri. L’importante è che costoro siano eretici, non allineati. Le Chiese cristiane, in particolare, non trovano grazia presso Verrecchia perché per troppo tempo hanno considerato essenziale bruciare gli eretici; e anche raccogliere indici dei libri proibiti. Ciò non impedisce a Verrecchia di avere amici come me, secondo i quali la sensibilità religiosa apre orizzonti e non li chiude; oppure come il compianto Gadamer, che riconosceva in Hegel un grandissimo pensatore (di cui è meglio non condividere le dottrine). Verrecchia stesso, del resto, ha una sensibilità buddhistica (dunque filosofico-religiosa) che si manifesta nel saggio conclusivo del volume, Il Danubio. Questo appartiene a ben altro genere letterario che la satira o la rapsodia. Ricorda piuttosto il “poema sinfonico”, anche perché fa pensare a Moldava di Smetana. Per Verrecchia, del resto, non esistono i generi letterari, fatta eccezione per quello da escludere: “il genere noioso”.

Per Vienna a tutta prima Verrecchia aveva qualche diffidenza, a causa del “mito absburgico” (“Senti, io ne ho le scatole piene di questo mito della Mitteleuropa”, dal direttore della Presse). Ma poi scoprì che era lì il suo amore, anche se beffardo. Dovrebbero dargli la cittadinanza onoraria. Rimasi con lui qualche giorno a Vienna e ora, leggendo la Rapsodia, mi par di ripercorrere qualche strada in sua compagnia. Scopro che la Rasumofskygasse – cara anche a me, perché a quell’ ambasciatore russo Beethoven dedicò i suoi tre quartetti più belli – gli è “cara perché ci abita la sua Ninfa Egeria”. Lì trascorremmo una sera, e il mattino dopo visitammo a tre la biblioteca del principe Eugenio. Vienna in queste pagine rivive la sua vita autentica e ci fa capire l’iniziale titubanza di Verrecchia nell’accettare quella sede: sembrava un tradimento a Lichtenberg, ambientato nello humour tutto diverso della Bassa Sassonia, influenzato dall’Inghilterra, a causa dell’unione con Hannover nella persona di Giorgio I. Ma tradimento non c’è stato: lo mostrano gli aforismi anteposti a ciascun pezzo della Rapsodia, che imitano quelli di Lichtenberg; e, qualche volta, gli sono perfino superiori.

19 dicembre 2003

Anacleto Verrecchia, Rapsodia viennese, Donzelli, Roma, 2003, pp. 310, € 24.


 
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