Marina Jarre. Alla ricerca dell’identità perduta
di Vittorio Macioce

La guardi. Ha più di ottant’anni e sembra il tronco di un ramo secolare, qualcosa di antico, irriducibile, che non sente pioggia, vento, stagioni. Le parli e dopo un paio di minuti ti viene in mente Italo Calvino, le sue “Lezioni americane”, quelle pagine sulla leggerezza, sul salto di Guido Cavalcanti al di là del muro o sulle ali dell’Ippogrifo. Calvino avrebbe dovuto incontrare Marina Jarre e parlarle o leggere “Ritorno in Lettonia” (Einaudi, pp. 270, € 17,50) e farsi raccontare come si può attraversare il brutto della storia senza perdere l’ironia, il sorriso lieve, il perdono, la saggezza, il disincanto di chi ha nelle vene il sangue del sangue di generazioni di avi in fuga o perseguitati, minoranze di minoranze, erranti e nomadi, o asserragliati in qualche valle piemontese, e decimati dal Dio di Roma o dalla peste. E tutto questo senza mai rinnegare nulla, senza rabbia, bestemmie, con la consapevolezza che ti può scuotere solo ciò che tra cento anni non riesci a dimenticare. Il resto passa. La leggerezza - diceva Calvino - è profondità. La leggerezza pesa.

Jarre è il cognome del marito. Lei si chiama Gersoni, nata nel Baltico da padre ebreo e madre valdese. E, come le dice un suo amico, deve averla combinata grossa per aver spinto il buon Dio a infliggergli questa condanna. La storia non le ha lasciato rughe, solo qualche piccola cicatrice e un rimpianto: non aver salutato suo padre in quella mattina del 1935, quando si lasciò alle spalle il portone di Andreja Pumpura iela numero 2 per scappare, con sua madre e sua sorella, in Italia. Fuga da Rumbula, sobborgo di Riga, Lettonia. Fuga incosciente di una bambina di undici anni verso Torre Pellice, nelle valli valdesi, provincia di Torino, quattromila e seicento abitanti, lì dove vivevano i suoi nonni. Un viaggio che, di lì a pochi anni, le avrebbe salvato la vita. Quando Marina Gersoni lascia Riga le armate di Hitler sono ancora lontane. Non c’è stato ancora l’Anchluss, non è ancora arrivato il ’38 della Cecoslovacchia e Varsavia è ancora libera. C’è già il “Mein Kampf” e c’è l’orizzonte di dove si andrà a parare. Ma nessuno ci crede, o meglio, nessuno pensa che ciò che verrà dopo si possa supporre o immaginare. Marina e Annalisa Gersoni vanno via semplicemente perché i genitori hanno divorziato e la madre pensa che sia più utile allontanarle da un padre poco affidabile, che si risposerà con un’infermiera tedesca e avrà una bambina, Irene. Moriranno tutti, il 30 novembre 1941, una domenica mattina. I nazisti in Estonia, Lituania, Lettonia, Bielorussia, Ucraina, Crimea hanno cominciato lo sterminio presto, prima della conferenza di Wannsee (gennaio ’42). Fu allora – racconta la storia – che Hitler annunciò la “soluzione finale”, l’eliminazione completa degli ebrei. Nei paesi baltici era già avvenuta.

Marina è in Italia e nel luglio del ’41 riceve una lettera del padre. E’ una richiesta d’aiuto. Non avrà mai risposta. Padre e figlia non si vedranno più. Sessant’anni dopo, da qui, da una risposta non data, da una storia accantonata ma non risolta, da un riavvicinamento postumo, nasce “Ritorno in Lettonia”. Da un dovere. Eppure non è un romanzo sulla “shoa”. Non è neppure una testimonianza. Non è, non vuole essere, una lezione sull’orrore del passato, un “non dimenticare” lasciato alle generazioni che verranno. “Tanto – dice lei – non credo che serva. Quello che è successo è una storia irreparabile. L’ho fatto per me, per un atto di giustizia”. Uno dei suoi personaggi – in un libro precedente – ci dice tutto, ci racconta il rapporto che questa signora di quasi ottant’anni, ebrea a metà, ha con l’Olocausto (parola che non ama, in italiano significa altro, quello che è accaduto agli ebrei non è stato un sacrificio, è stato un massacro): “Di questo orrore possono raccontare solo i testimoni. E noi, e io non posso scriverne perché questa cosa, questa cosa non si può inventare. Perciò niente romanzi, niente film, niente commemorazioni, niente di niente. Solo loro, solo chi è sopravvissuto ha il diritto di testimoniare. Se ci riesce. La cosa non può essere narrata, non sopporta l’espressione letteraria; lo sterminio non può essere raccontato, le parole si rifiutano, le parole si fanno livide, le parole si rifugiano nel silenzio. Raccontare è tradire”.

”Ritorno in Lettonia” è un’altra cosa. E’ un cammino che pian piano diventa libro. E’ il racconto di una ricerca, iniziata quasi per caso, come se il destino ti avesse messo su quella strada e poco alla volta prima l’autrice e poi il lettore si ritrovano a mettere insieme i pezzi. “Ritorno in Lettonia” è un’adolescente che non può aiutare il padre. E’ una bambina graziata dal fato. E’ una colpa che non è una colpa. E’ una preghiera davanti ad una pietra nera con incisa la stella di Davide. Ed è soprattutto la lunga storia di una stirpe, di una diaspora che comincia da molto lontano e disperde i Gersoni nel mondo. “Ebrei sefarditi, espulsi dalla cattolica Isabella, sospinti di paese in paese dall’intolleranza e dalla miseria dei ghetti europei”, alcuni di loro viaggeranno verso Nord, fino in Polonia e da lì, all’inizio del XIX secolo a Mitau, capitale del Granducato di Curlandia, oggi Lettonia, in piccolissime case appoggiate l’una all’altra. Per ritrovarsi poi ancora divisi, in Canada, in Italia, in Brasile, alcuni mantenendo la “i” finale, altri trasformando quella “i” in “y”: Gersoni o Gersony, come l’altra Marina, quella che scrive sul “Giornale”, anche lei personaggio incontrato come frammento vagante del libro. E di questi “Gershon”, Marina Gersoni, sposata Jarre, narra mestieri e matrimoni, morti e cambi di residenza, tracciando le rette di città invisibili, luoghi perduti e un po’ magici, con un nonno pellicciaio in Alaska, un parente che attenta alla vita dello zar, un altro fabbricava fischietti, un po’ particolari, facevano rientrare nelle stalle le mucche smarrite.

Strana la gente di questa sorta di Macondo millenaria che è la terra, migrante e immaginaria, dei Gersoni. Terra senza radici. “Perché - sostiene - resto un’apolide, che la sua identità che se l’è costruita con gli anni, con i figli, il marito, il lavoro”. Senza conservare nulla, perché perde e dimentica tutto. Ma, forse questo sì, per chiudere un cerchio, smentendo la vecchia canzone yddish “Ess firt weg zurick”: “nessuna strada conduce indietro”. Marina Jarre è tornata in Lettonia, per ritrovare i suoi Gersoni: “Non saprò mai a quale punto del cammino secolare abbiano perso la chiave di casa, saprò soltanto che non hanno mai perso né il sabato né la Pasqua, né, naturalmente, la i”. O la y.

19 dicembre 2003



 
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