La rivoluzione democratica dei neoconservatori
di Alessandro Gisotti

Si può esportare la democrazia, il libero mercato, lo Stato di diritto? Insomma, si può esportare l’America? Quella che per molti è un’idea folle e per altri un progetto affascinante, ma di impossibile realizzazione, è invece per i neoconservative una ragione di vita. Chi sono, dunque, da dove vengono e soprattutto cosa pensano i “nuovi consiglieri del re”? Sono questi gli interrogativi a cui risponde Christian Rocca con il suo “Esportare l’America” edito nella collana dei libri de Il Foglio. Con lo stile pungente che caratterizza il suo popolare blog Camillo, Rocca fornisce un valido strumento per comprendere il neocon pensiero. Una variabile senza la quale risulta impossibile risolvere l’equazione della politica estera americana post 11 settembre 2001. Dipinti spesso sbrigativamente come una sorta di Spectre, oscuri personaggi che hanno preso in ostaggio la Casa Bianca, i neoconservatori sono tutt’altro che un’invenzione di Bush jr. E ben altro che dei massoni a stelle e strisce. Raccolti attorno ad alcuni think thank come l’American Entrerprise Institute e riviste quali Weekly Standard, operano alla luce del sole, da qualche decennio. E nascono a sinistra. Illuminante, al riguardo, la citazione del “padrino” dei neocon, Irving Kristol: “Un neoconservative è un liberal che è stato assalito dalla realtà”.

Rocca analizza i passaggi fondamentali nell’evoluzione del movimento neocon. Dalla rottura con il partito democratico, ai tempi della guerra del Vietnam, inizia la marcia di avvicinamento al partito repubblicano. Parabola che culminerà nella presidenza di Ronald Reagan, appunto un rivoluzionario democratico. Come un fiume carsico, i neoconservatori riemergono quando sembrano ormai scomparsi, travolti dalla “fine della storia”. Così, quando Bush l’isolazionista cerca una strategia per fronteggiare il Nemico, che ha portato la guerra nelle strade delle città americane, i neocon saranno là ad attenderlo. Per trasformarlo in Bush l’interventista democratico. Per l’amministrazione di Washington, esportare l’America diventa allora uno strumento di autodifesa. Anche in questo caso, una citazione diventa chiave di lettura: “Non lo facciamo per altruismo – scrive Steven Den Beste – Non stiamo cercando di esportare una democrazia liberale di tipo occidentale perché siamo missionari. Stiamo riformando l’Iraq per nostro stretto interesse. Dobbiamo promuovere una riforma nel mondo arabo-musulmano perché, nel lungo termine, è l’unica strada per fare in modo che la smettano di tentare di ucciderci”.

Da Robert Kagan a William Kristol (figlio di Irving) da Michael Leeden a Mark Gerson, il manuale di Rocca offre una vasta gamma di riflessioni sul neoconservatorismo americano, facendo parlare gli stessi protagonisti. Ma non manca un capitolo dedicato alla “sinistra che non abdica”. A quei liberal, come Paul Berman e Christopher Hitchens, che considerano la guerra a Saddam Hussein non un rigurgito imperialista, ma una guerra antifascista. Come sessant’anni fa, nella Vecchia Europa. Ampio spazio viene poi riservato alla battaglia cruciale della ricostruzione irachena con documenti del governo provvisorio di Baghdad, che, in Italia, soltanto il giornale di Giuliano Ferrara s’è preso la briga di pubblicare. Nelle centottanta pagine di “Esportare l’America”, la parola petrolio compare forse in un paio di occasioni. Democrazia, diverse decine di volte. Forse, sta proprio qui il significato, tra rischi ed opportunità, della rivoluzione dei neoconservatori.

19 dicembre 2003

gisotti@iol.it

 
stampa l'articolo