Comunismo, il libro nero di Stalin
di Barbara Mennitti

“Robert Conquest, The Harvest of Sorrow: Soviet Collectivization and the Terror Famine, seconda frase:

 
  Possiamo forse darne ora un’idea dicendo che nel corso delle azioni qui raccontate persero la vita circa venti persone per, non ogni parola, ma ogni lettera di questo libro.

 Fin qui, 2820 vite. Il libro consta di 411 pagine.”

Con queste parole, con questa citazione di uno dei maggiori storici dell’Urss, Martin Amis apre il suo libro, buttandoci subito brutalmente nell’orrore, nella violenza, nello sterminio di massa che è stato il comunismo dell’Unione Sovietica e nella follia paranoide di Iosif Stalin. “Koba il terribile” (Koba è il soprannome che Stalin si era dato), pubblicato da Einaudi (€ 17), trae spunto da una domanda riassunta nel sottotitolo del libro (Una risata e venti milioni di morti): perché i crimini di Stalin vengono giudicati in modo più indulgente di quelli di Hitler? Perché si poteva scherzare sui gulag e sulla Siberia, quando nessuno avrebbe riso di Auschwitz? La prima parte del libro si occupa di questo: della responsabilità morale di un’intera generazione di intellettuali liberal occidentali, che avevano i mezzi e avrebbero dovuto avere la lucidità e l’onestà per valutare l’esperienza del comunismo sovietico. Ma hanno invece contribuito, in nome della loro ideologia, a stendere una cortina di silenzio su una tragedia che ancora oggi non si riesce a quantificare e si tende a sottovalutare.

Nella seconda parte del libro, “Iosif il terribile: breve corso”, Amis si addentra negli orrori dell’epoca staliniana, avvalendosi di citazioni e testimonianze: le torture della Ceka (la polizia segreta), le confessioni estorte, le esecuzioni, le deportazioni in massa, le innumerevoli fosse comuni, le brutali repressioni in Georgia e in Ucraina, lo sterminio dei kulaki (contadini russi, considerati nemici del regime), la terribile carestia pianificata che portò al cannibalismo, i gulag, le purghe da cui non si salvò nessuno. E proprio questa è una delle cose più inquietanti del sistema sovietico: un sistema fondato sul terrore, dove tutti avevano motivo di temere e nessuno poteva sentirsi al sicuro, nemmeno chi ne faceva parte, nemmeno i parenti e i collaboratori più stretti di Stalin, che infatti finirono tutti, prima o poi, nei sotterranei della Lubjanka. Un sistema che disprezzava l’uomo, considerandolo solo uno strumento, quando non era un ostacolo, per la realizzazione di un regime inumano, guidato da una personalità sanguinaria e paranoica.

Descrivendo questo sistema, Amis si domanda: “E allora dove li troviamo, in questo panorama, gli uomini nuovi? Dov’è l’homo sovieticus, la nuove stirpe pienamente umana?” I migliori candidati sembrano essere i dochodjaga dei gulag, letteralmente gli arrivati. Amis cita Valdimir Petrov: “Sulle prime non capivo la connessione, ma poi me la spiegarono: i dochodjaga erano arrivati, erano coloro che avevano raggiunto il socialismo, erano il tipo compiuto del cittadino di una società socialista”. L’ultimo gradino della degradazione, i “mezzi scemi” del gulag che, per quanto li picchiassero, non smettevano di mangiare l’immondizia, anche quando veniva buttata nelle latrine. “Sapevo che avremmo finito per trovarli, gli uomini nuovi – conclude l’autore – Eccoli, picchiati, picchiati e ancora picchiati, a quattro zampe a ringhiare come cani, scalciandosi e mordendosi l’un l’altro per una manciata di rifiuti putrescenti. Eccoli.”

19 dicembre 2003

bamennitti@ideazione.com

Martin Amis, Koba il terribile, Gulio Einaudi editore, 2003, 17 euro
 

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