Musica. Sesso, bugie e regie liriche
di Giuseppe Pennisi

La rara esecuzione italiana de “Il Re pastore” di Mozart (solo la sesta volta, comprese quelle in versione da concerto, in circa 220 anni) ripropone un tema di cui occorrerebbe discutere di più: sesso e politica nelle regie liriche. L’encomiabile decisione del Teatro delle Muse di Ancona di mettere in scena la “serenata in due atti” del giovane Wolfgang Amadeus ha, infatti, conseguito un risultato strabico. Ad un’esecuzione musicale molto buona corrisponde una regia tale da restare perplessi. L’Arcadia metastasiana viene trasferita in una sorta di cortile di condominio povero. Il pastore è uno straccione (scelta forse comprensibile). Lo sono però anche le ninfe, le principesse e lo stesso Alessandro Magno. In questo quadro a metà tra Corviale e Calcutta, dominato da una specchio d’acqua (che occupa quasi tutto il palcoscenico) e da mura grigiaste, i cinque protagonisti della “serenata” sono contornati da 11 mimi guerreggianti; quanto più le note tendono alla serenità tanto più i trucidi mimi diventano violenti. Grazie al Cielo, nell’asettica ed asessuata Arcadia de “Il Re pastore” non si copula a scena aperta. Tuttavia, proiezioni ci ricordano la guerra nel deserto (Tobruk? El Alamein?). Fin troppo evidente l’obiettivo di sottolineare l’inno alla concordia del concertato finale, trasformato in una cantata pacifista da centro sociale.

Il vostro “chroniqueur” ha spesso apprezzato le regie di Daniele Abbado, principale responsabile del pasticcio anconetano. Da ultimo, quella del “Wozzeck” presentato a Roma. Non è tanto importante che questa volta abbia toppato ma che da qualche tempo il “teatro di regia” prende un’opera e in genere ne fa una di queste tre cose: o la infarcisce di sesso gratuito (meglio se con genitali maschili in bella mostra) o la trasporta in tempi moderni oppure ancora pone in scena un’azione che poco ha a che fare con quanto scritto nel libretto. Ripetiamo: vent’anni di “chroniques” dimostrano, carte alla mano, che il vostro “chroniqueur” è un fautore di regie moderne (che meraviglia l’ “Onegin” diretto da Irina Brook o la tetralogia nelle mani di Chéreau!) quando sono in linea con libretto e musica. Ancora, il vostro “chroniqueur” ritiene che l’eros è essenziale a molte opere liriche (dalla monteverdiana “Poppea”, a tutto Puccini, Strauss, Janacek e Britten) ma perché introdurre sesso gratuito, per più in toni lugubri (il sesso è, di solito, allegro!) e con connotati politici anti-borghesi.

Alcuni esempi, nel “Tristano e Isotta” diretto da Ruth Berghaus (per anni despota dello Staastoper under Den Linden nella Berlino del socialismo reale) e visto a Bologna, perché adombrare, in un clima di decadente crociera capitalista, una relazione omosessuale tra Tristano e Re Marco, suo zio? Nel recente “Ballo in maschera” madrileno, perché – con il pretesto che le congiure si tramano nei Gabinetti (ministeriali) –inscenare il primo quadro in un cesso collettivo, con congiurati seduti, con panatoli e brache abbassate, su w.c. e far loro giurare l’alleanza mentre – con carta igienica (e con rispetto, parlando)- si puliscono il sedere? Ancora ne “La Damnation de Faust” in cartellone a Ginevra, il coro di tenori, bassi e baritoni pare sia stato scelto non solo in base alle capacità canore ma anche all’avvenenza intima: cantano nudi, con il volto in penombra, ed i riflettori puntati sui genitali (e quando voltano le spalle sui glutei). In una “Salomé” romana di una quindicina di anni fa, forse a ragione della consulenza artistica di Aldo Busi, venivano mimate, oltre a masturbazioni, titillazioni dital-anali tra soldati di Erode mentre la principessa si toglie, danzando, i sette veli. 

Nel “Don Giovanni” in repertorio a Stoccolma, durante la sinfonia (a sipario alzato) si assiste ad una fellatio al Commendatore da parte di una cameriera di un fast food. Si potrebbe continuare. Trent’anni fa, queste “regie di rottura” – allora le si chiamava così – venivano lette metaforicamente: una metafora di una società (quella capitalistica) in disfacimento e l’annuncio di un mondo nuovo (quello del “socialismo reale”). Il sesso sulla scena lirica era considerato liberatorio ed era raro pure per una determinante tecnica: erano pochi i cantanti attori con le fattezze per mimarlo senza cadere nel comico. Oggi, non soltanto il “socialismo reale” è finito come sappiamo, il capitalismo è vivo e vegeto e la rivoluzione sessuale ormai è stata bella che fatta. Le “regie di rottura” rompono solo le scatole.

19 novembre 2003

gi.pennisi@agora.it

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