Il malessere dell’Elefante
di Carlo Violo

L’esperienza maturata da Gus Van Sant prevalentemente come autore di cortometraggi, spot pubblicitari e videoclip, è tangibile in questo film vincitore della scorsa edizione del Festival di Cannes. Di lui si ricorda principalmente il lungometraggio dell’89, Drugstore Cowboy, molto apprezzato dalla critica americana, ma la sua capacità di muovere la macchina da presa, facendo sembrare facile esposizione una operazione narrativa che di facile non ha nulla, è certamente debito che l’autore ha verso questo suo lungo mestiere. L’idea di incollare la macchina da presa ai protagonisti per mostrare il tessuto di fattarelli quotidiani, sfondo e matrice di una tragedia non è nuova. Così come non è nuova la tecnica di interrompere la continuità narrativa per mostrare gli stessi accadimenti da varie prospettive. Basti ricordare per tutti il film che portò alla ribalta nel ’55 la genialità di Stanley Kubric, "Rapina a mano armata", denso di suspense e drammaticità giocate proprio sul filo delle diverse prospettive. Nella sua scarna descrizione della vita quotidiana di una high school americana, “Elephant” ha drammaticità da vendere, non solo perché pur conoscendo i fatti a cui è ispirato (la strage di Colombine) non si può fare a meno di tenere il fiato sospeso sperando che qualcuno dei ragazzi alla vita dei quali partecipiamo si salvi, ma soprattutto perché l’autore mette a nudo con la cinepresa il senso di vuoto e di cinismo degli adolescenti americani medi senza alcun commento, lasciando che la storia precipiti da sé verso il baratro del non senso e della follia.

L’assenza di intellettualismo è più dirompente di qualsiasi retorica; l’assenza di una vera storia rende tecniche già usate, nuove per genere e contesto. Questa è la realtà di una certa America, dice l’autore, lasciando allo spettatore, figlio di questa civiltà, la terribile responsabilità di formulare domande la cui risposta appartiene alla coscienza profonda. Il fatto che la stampa americana si sia lasciata andare a dure critiche ancora prima che il film uscisse negli Usa mostra che Van Sant è riuscito a mettere il dito nella piaga con una semplicità e una onestà disarmante, che lascia senza difese o alibi. La spietata cinepresa di Van Sant mostra il vuoto dei sentimenti, la diseducazione emotiva che fa apparire mostruosa, nelle mani di questi ragazzi, persino l’evocazione del romanticismo pianistico e denso di valori di Beethoven. 

L’espediente di seguire letteralmente i passi dei giovani protagonisti, focalizzando l’obiettivo sui primi piani, comunica egregiamente la scarsezza del loro orizzonte a fronte di spazi completamente aperti, vasti, che vengono percepiti quasi per intero confusi e sfocati sullo sfondo. I brevi e banali dialoghi avvengono solo quando nell’orizzonte circoscritto entra un elemento del mondo circostante, amico, conoscente, inserviente, professore, un isolamento assoluto e senza speranza perché appare ineluttabile, una noia profonda da cui nessuna opulenza può distogliere. Gli elementi umani di contatto diventano così spersonalizzati, al pari delle docce o della biblioteca o dei tavoli della mensa, solo birilli ‘da buttare giù. Persino le reazioni di coloro che riescono a scampare ai colpi appaiono sfocate, come diluite, più di paura animalesca che di pietosa solidarietà, quasi si trattasse del risultato di un videogioco.

Nathan e Carrie, Acadia, Eric e Alex, Michelle e tanti ragazzi come loro, si muovono nel vuoto. Van Sant fa bene a non distinguere tra buoni e cattivi lasciando a noi anche questo estremo bisogno di mettere comunque le cose al loro posto. La genialità del film sta proprio in questa sua etnografia, scarna, senza cedimenti a psicologismi e antropologie. Nessun salvatore dell’ultimo istante: sono i tempi reali della vita e del dramma umano e non c’è difesa contro l’ingiustizia mostruosa della violenza che nasce da accumulo quotidiano di ignoranza e superficialità, senza un nemico o una vittima precostituita. La genialità del film sta nell’aver trovato il linguaggio giusto per far uscire gli spettatori dalla sala con il massimo dei dubbi e dei pensieri, con il massimo qualitativo degli interrogativi. Per chi abbia voglia e coraggio di porseli. 

5 novembre 2003

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