Fate, finestre e bagni turchi
intervista a Ferzan Ozpetek di Priscilla Del Ninno

Intenso, eppure compassato e lucido, Ferzan Ozpetek è l’affabulatore per immagini tra i più raffinati che la nostra scuola di autori degli ultimi anni annoveri. Il cantore, elegante, e al tempo stesso passionale, di un cinema capace di mescolare, alchemicamente idee e emozioni, di fondere, fino a non distinguerle quasi più, le due anime che determinano l’universo di celluloide: quella spettacolare e quella più propriamente artistica, fonte ed espressione di creatività obbligata a strizzare l’occhio al mercato, linguaggio popolare per eccellenza che può raccontare e divulgare temi alti, sentimenti profondi. Testa di ponte tra una sensibilità narrativa più aperta verso il Mediterraneo e una tendenza estetica che punta sui richiami e le contaminazioni di generi e di linguaggi, il cineasta turco naturalizzato italiano ha rivelato a pubblico e critica, tappa dopo tappa, successo dopo successo, il segreto della sua riuscita: descrivere, avvolgendola nel magico alveo di celluloide, la vita di tutti i giorni, le problematiche di una ricerca interiore che si scontra e si incontra con la quotidianità. “Quello che davvero mi interessa – ci dice – è riuscire a fare i film che piacciono alla gente, che io considero parte di me e inesauribile fonte d’ispirazione. Certo, non posso negare che l’incasso finale di quello che comunque è anche un prodotto di consumo, faccia piacere, ma quello che più conta per me, nel mio lavoro, è tirare fuori quello che sento, in cui credo, su cui mi interrogo. C’è sempre molto delle mie personali speculazioni nei miei film, c’è molto della mia vita, delle storie che ho dentro e che voglio condividere con gli altri. Poi ci sono anche le gioie, le risate e le lacrime di tutti i miei attori che, insieme a me, sul set, costruiscono, giorno per giorno, le emozioni di un film”.

Sapiente equilibrio di ispirazione e tecnica, allora, Ferzan Ozpetek è uno di quegli alfieri del nostro cinema più recente a cui si deve la riconciliazione tra pubblico e industria. Uno di quei cavalli di razza delle scuderie di autori nostrani che più e meglio di altri ha dimostrato di aver recepito e metabolizzato la lezione impartita dai grandi maestri della scuola della commedia all’italiana. E del resto, nato ad Istanbul nel ’59, si trasferisce a Roma solo a diciannove anni. Studia storia del cinema alla Sapienza; partecipa a corsi di storia dell’arte e del costume all’Accademia di Navona, nonché a quelli di regia all’Accademia d’arte drammatica Silvio D’Amico. Poi, nel 1987, inizia il suo apprendistato sul campo: esordisce come assistente alla regia con Massimo Troisi per Scusate il ritardo e con Maurizio Ponzi per Son Contento. Quindi affina la pratica con personalità del calibro di Francesco Nuti, Lamberto Bava, Ricky Tognazzi, Sergio Citti e Marco Risi. Sarà proprio quest’ultimo che, con Maurizio Tedesco, produrrà il primo film di Ozpetek, Hamam. Il bagno turco, la pellicola del 1997 che, dal Giappone agli Stati Uniti, gli regala larghi consensi sia di pubblico che di critica. Poi, dopo la conferma di Harem Suarè e soddisfacenti passaggi festivalieri a Cannes, nel 2001 firma Le fate ignoranti, il film che lo consacrerà definitivamente al grosso pubblico, promuovendolo cineasta a pieni voti. E se con i primi due film Ozpetek analizza, come in una sorta di omaggio alle proprie origini turche, i rapporti tra Oriente e Occidente, con l’apologo esistenzial-sentimentale de Le fate ignoranti sposta il centro d’attenzione nel nostro paese, fino a solennizzare il suo rapporto con Roma nella sua ultima, sofisticata, fatica d’autore: La finestra di fronte, la pellicola per cui non smette di ricevere premi e riconoscimenti di ogni tipo. 

Un turco italianizzato o un italiano di origine turca. Una identità paradigmatica per definire una delle più recenti promesse del nostro cinema. E, probabilmente, una metafora dell’Italia globale e dell’Europa che verrà… Cosa ne pensa?

E’ la mia produzione cinematografica a parlare. Il mio primo film era il tentativo di scoprire le mie radici turche attraverso il mio occhio italiano, il secondo andava ancora oltre, proponendo un’indagine sul perché mi fossi allontanato, sradicandomi, per andare alla ricerca di un’altra cultura, di differenti stimoli intellettuali, di nuove sfide emozionali e professionali. Trovando tutto questo in Italia. E allora, con Le fate ignoranti ho voluto capire perché sto qui, e come vedo l’Italia oggi. E, attraverso la Finestra di fronte, come la vivo da quella che, ormai, considero la mia città: Roma.

In effetti finora ha firmato due racconti di ambientazione turca e due decisamente romani. Soprattutto nel Bagno turco e nel suo ultimo film, però, ha scelto la storia di un amore omosessuale per rendere più evidente il confronto-conflitto tra due nature, due sensibilità. Ritiene che questo sia l’approccio per descrivere, per esempio, la diversità tra identità (quella occidentale in senso lato e quella euro-mediterranea, intanto) oppure pensa che potrebbero essere utilizzati anche altri versanti?

Il mio approccio, al di là degli interrogativi intellettuali o delle necessità psicologiche che voglio affrontare di volta in volta, è un approccio essenzialmente di tipo emozionale. Non ho nemmeno un piano di lavoro dettagliato e definito nel momento in cui mi metto a scrivere, so solo quello che voglio raccontare, che di norma viene fuori gradualmente. Certo, il tema della confusione, di identità, di sessualità, di classe sociale, è qualcosa che ho sempre molto sentito, e che riscontro molto intorno a me, vicino alla gente che osservo, nelle realtà con cui entro in contatto. 

Allora è da questo che dipende la circolarità del suo apologo cinematografico, che poi è ciò che lega la sua tetralogia? In fondo, nei suoi film i piani temporali si intrecciano e si sovrappongono, confondendo il presente, il passato e il futuro. E poi, ogni donna che racconta, finisce per incarnare tutte le altre che sono venute e che ancora verranno…

Diciamo che quello che rappresenta il denominatore comune è l’articolazione di uno stesso discorso in più parti di testo, in diversi racconti filmici. Certo il filo conduttore c’è ed è dato da quello che voglio dire, che in genere è qualcosa che affido a protagoniste femminili. Ritengo che le donne siano sempre delle figure vincenti, e decisamente più sfaccettate di molti uomini. Quello rosa è un universo affascinante che può essere il mio punto di forza, ma che rischia spesso di diventare anche il mio momento narrativo di debolezza. Accade sempre, per esempio, che comincio a pensare a un film come all’intreccio delle vicende legate a un protagonista maschile, poi, nel procedere della narrazione, mi rendo conto che le figure femminili escono dallo sfondo e si mettono prepotentemente in primo piano. Ed è un procedimento istintivo, spesso addirittura inconsapevole…

E a proposito di confronti e di universi maschili e femminili, nel suo primo film, Il bagno turco, una delle protagoniste, Anita, è una donna che ha ritrovato se stessa in un Hamam di Istanbul. E sulla sua scia, anche gli altri personaggi seguiranno, più o meno drammaticamente, le sue orme. Lei ha compiuto il percorso contrario. Perché l’Italia?

Perché, come ho cercato di far capire anche nel mio ultimo film, l’Italia è uno dei paesi europei più ricchi di storia, più pregni di passato, e quindi quello che, ad ogni angolo, dietro ad ogni epigrafe, racconta qualcosa, racchiude un vissuto che mi incuriosisce e, al tempo stesso, mi intimidisce. Per questo, cercare di sviscerarlo girando un film come La finestra di fronte per me ha significato sublimare il passato ma anche, al tempo stesso, esorcizzarlo appropriandosene. Facendo appello a quella memoria storica che, secondo me, è alla base del senso di appartenenza da cui è impossibile prescindere…

Cosa pensa della politica un regista che appare più attratto dai processi culturali di lungo periodo?

Guardi, io più che al potere e alle sue dinamiche tendo a guardare alla società, alle gente normale, alle storie individuali e corali. E ho un’idea tutta personale della politica che, però, mi sembra stia diffondendosi sempre più tra le persone, anche in Italia. Credo infatti che i politici dovrebbero riuscire a lasciare il Palazzo e confrontarsi sempre più con i problemi della quotidianità: parlare con la gente per strada, andare in metropolitana con i cittadini qualunque. In particolare, io ho imparato sulla mia pelle a non giudicare le persone se sono di destra o di sinistra. Le appartenenze ideologiche lasciano il tempo che trovano. Quello che conta sono le loro azioni. E questo vale anche, e soprattutto, per gli uomini politici. 

E’ nato in una città di frontiera e di incontro di civiltà come Istanbul e oggi vive a Roma, culla del cristianesimo. Qual è la sua posizione nei confronti della religione? 

Certo, sono nato a Istanbul, città a maggioranza islamica che nella sua storia ha avuto anche molto cristianesimo e una forte presenza ebraica. E io sento forte il richiamo del senso del sacro. Personalmente, però, non riesco a privilegiare una religione. Ho una mia spiritualità che è fatta di intuizioni cristiane, ma anche di Islam, di ebraismo e, addirittura, di buddismo. Spesso, a Roma mi capita di entrare in piccole chiese e ritirarmi a meditare. Mi siedo, mi concentro, accendo anche le candele e penso alle persone che ho perso. E anche al passato e alle sensazioni conservate nel nostro vissuto. Ecco: credo soprattutto alla forza della memoria. 

24 ottobre 2003

(da Ideazione 5-2003, settembre-ottobre)

 

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