Film. Tutto il resto è Blues
di Carlo Violo

Wim Wenders ci aveva abituati al racconto dell’anima umana attraverso la biografia musicale (con Buena Vista Social Club) o alla presenza degli angeli nella vita quotidiana (come ne “Il cielo sopra Berlino”, “Così lontano così vicino”, “La città degli angeli”). Nel suo ultimo film, “L’anima di un uomo”, tra i protagonisti del recente festival di Cannes, Wenders rinnova il suo linguaggio concentrandosi ancora una volta sulla combinazione espressiva di immagini e sonoro, mescolando come non mai il sacro e il profano angelico, cavandone una sorta di “poesia documentaria”. “L’anima di un uomo” fa parte di una serie, sette film in tutto, che sotto la guida sapiente di Martin Scorsese vuol cogliere l’essenza della magia e dell’influenza sulla musica del Blues. 

Siamo nell’anno del Blues, proclamato dal Congresso degli Stati Uniti e iniziato con un grandioso concerto inaugurale il 7 febbraio al Radio City Music Hall di New York. Si celebrano i cento anni da quando, nel 1903, W.C. Handy incontrò un uomo che suonava la “musica più magica che avessi mai ascoltato” su un binario morto della stazione di Tutwiller, nel Mississippi. Anche se, certamente, le radici di questo canto affondano nel sentimento e nel dolore della lunga epopea della schiavitù nera del sud degli Stati Uniti. Da allora la pianta si è ramificata originando il jazz, il rhythm and blues, il rock’n’roll, il soul e l’hip hop, donando frammenti della sua anima praticamente a tutta la musica moderna. I sette registi, a vario titolo coinvolti tutti con il Blues, sono Charles Burnett, Clint Eastwood, Mike Figgis, Marc Levin, Richard Pearce, lo stesso Scorsese e, appunto, Wenders che dichiara: “Queste canzoni hanno significato un mondo per me. Sentivo che c’era più verità in esse che in qualsiasi libro che avevo mai letto sull’America, o in qualunque film che avevo mai visto”. 

Così, coerentemente con un tale significato “mondiale”, il film inizia con la visione celeste della Terra da cui il Voyager si sta allontanando per la sua missione intergalattica, iniziata nel lontano ‘77. Ma perché il Voyager? Forse non tutti sanno che, tra le testimonianze dal pianeta Terra affidate alla sonda per un possibile incontro con altre intelligenze, c’è una campionario dei generi musicali e tra questi “Melancholy Blues” arrangiata da Louis Armostrong e i suoi Hot Seven. Insomma, il Blues sta viaggiando anche tra le stelle. E come potrebbe essere diversamente per questa forma di canto dove i riferimenti alla sacralità, a volte ambigua o amara, dello spirito umano sono così espliciti e, soprattutto, così direttamente decodificanti dell’immediatezza dell’intuizione? Se il Cosmo, come affermano in Oriente, è un flusso di consapevolezza che nasce istante per istante allora il Blues ne è la rappresentazione. 

Le anime degli artisti narrate da Wenders perché a lui più care, sono navi spaziali in viaggio verso confini misteriosi: Skip James, Blind Willie Johnson e J.B. Lenoir. Anime immense affiorate dal nulla a collocare il Blues su questo esclusivo pianeta dove la nostalgia melanconica e travagliata dei neri americani era pronta per accoglierlo. I riferimenti del film ai grandi sommovimenti americani legati ai neri e non solo, da Martin Luther King al Ku Klux Klan, dal Vietnam alla lotta femminista, più che condimento di impegno civile appaiono pura testimonianza del travaglio di un’anima collettiva che nel Blus ha trovato la sua espressione più diretta. Il film racconta la storia di queste vite emblematiche e drammatiche attraverso ricostruzioni di immagini e di suoni, raro materiale d’archivio, sequenze documentarie in prima persona e cover delle loro canzoni da parte di musicisti contemporanei come T-Bone Burnett, Shemekia Copeland, Lou Reed, Lucinda Williams, Cassandra Wilson e tanti altri. 

La vibrazione dell’anima non cambia passando all’insonorizzazione elettrica attuale da quei primi suoni puri ed esili di chitarre acustiche. Nessuno dei tre artisti ha avuto successo, come lo si intende oggi, e la grandiosità dell’architettura moderna del Blues come dell’ingegneria del Voyager, contrasta con il destino desolato delle loro anime profonde. B.W Johnson, accecato da bambino dalla matrigna per vendetta, cantava fuori dalle chiese. Skip James vinse un’audizione per la Paramount, salì su un treno per il Wisconsin per andare a registrare 18 brani in un solo giorno con una chitarra presa in prestito. Una registrazione che ha fatto la storia del Blues (basta ricordare Devil got my woman, Cherry Ball Blues o I’m so Glad). Il giorno dopo incise altre 8 canzoni, incassò il compenso e sparì, senza che nessuno ne avesse più notizie. Fu ritrovato trent’anni dopo, malato, salì di nuovo sul palco e si esibì come se non fosse successo nulla, davanti ad una folla di giovani che non lo avevano mai sentito nominare o per i quali era soltanto vaga mitologia. Potrebbe essere una storia Zen. J. B. Lenoir fu riscoperto, anche lui appartato, attraverso un filmato inedito di due appassionati svedesi che investirono tutte le loro risorse nell’impresa ma non riuscirono a fargli avere il successo e le scritture che auspicavano. Morì tragicamente in un incidente stradale. 

Siamo, insomma, al cospetto delle profondità insondabili dell’anima, dove cessa qualsiasi possibile commento, qualsiasi metro di giudizio umano, dove non riusciamo neanche a definire da quale livello della nostra vita deriva l’emozione che sentiamo insieme alla loro voce, la cui sonorità riguarda poco le frequenze fisiche. Wenders perciò si affida saggiamente alle immagini e ancora di più alla musica, mostrando come il cinema è anche pellegrinaggio personale nei santuari misteriosi della creazione. Quanto esprime l’impresario che fu di Skip James, commentando il suo concerto da redivivo, ha la forza dell’incisione nella pietra: “Faceva passare la musica sopra la testa del pubblico, fino all’aldilà.” E questo è il Blues.

4 luglio 2003

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