Il cineasta che fece l’impresa
intervista a Pupi Avati di Priscilla Del
Ninno
“Il cuore altrove? Penso sia il mio. Ancora oggi credo che il
tempo migliore sia quello di là da venire”… Così Pupi Avati, com’è
suo costume, stigmatizza in poche, ma significative battute, la
sua personalissima concezione della vita. La sua percezione del
reale. La sua proiezione verso il sogno cinematografico, rimosso,
per un periodo, e ritrovato solo con la sua ultima fatica, Il
cuore altrove, titolo che gli è appena valso il David di Donatello
per la migliore regia. Il suo film “più personale”, quello che lo
ha riconciliato con se stesso e con il suo lavoro; un’idea nata in
un “momento doloroso della sua carriera, a ridosso della delusione
non ancora del tutto assorbita legata ai Cavalieri che fecero
l’impresa (“due anni di lavoro, molto denaro e scarsi riscontri”).
Il plot della riconciliazione, insomma. Con il suo cinema:
affabulatorio, magico, struggente. Un cinema capace di sedurre con
il racconto dei sentimenti. “Il silenzio che è seguito ai
Cavalieri che fecero l’impresa – ci spiega – lavoro al quale avevo
dedicato tanta fatica ed energie, mi ha colpito in modo profondo.
Poi un giorno mi sono seduto davanti alla macchina da scrivere e
mi sono ricordato di mia madre, delle storie che mi raccontava,
dell’ospizio per non vedenti di cui mi parlavano i miei parenti di
campagna, in cui si organizzavano tè danzanti per fare compagnia
alle ragazze cieche. Avevo il titolo pronto da venticinque anni.
Aspettavo solo di architettare la storia giusta”. E la storia è
arrivata: l’ha pensata, metabolizzata, inventata, circostanziata e
messa al servizio di un sofisticato apologo grazie al quale Avati
è tornato a cullare le sue illusioni di celluloide: illusioni che
hanno origini nell’anima artistica del cinema, spesso profanata da
una discutibile fisicità imprenditoriale. Illusioni che affondano
le loro radici in un terreno culturale fatto di suggestioni
personali e passioni storiche. Di nostalgia privata e di memoria
pubblica.
E allora, salvo l’epica avventurosa dei
Cavalieri e le incursioni magiche dell’Arcano incantatore, lei è
solito affrontare il discorso filmico con una raffinata grammatica
intimista. Quanto pesano sul suo cinema i ricordi? E che valore
dà, nella realizzazione di un suo film, alla memoria storica di un
popolo e alla nostalgia personale di un regista?
Con l’andare del tempo è evidente che il rapporto con il proprio
passato, con la propria memoria, con le proprie radici, muta,
perché cambia la prospettiva da cui si guardano le cose attraverso
il maturare dell’esperienza. Quello che poteva essere il mio
vissuto, il mio mondo di riferimento quando avevo trentacinque
anni anni non corrisponde certo alla visione dei trascorsi che ho
acquisito oggi che ne ho sessantatre. Ho cominciato a raccontare
me stesso, la mia famiglia, la mia jazz band, la mia Bologna,
quando ero intorno alla quarantina e non ho più smesso fino ad
oggi. Fino al Cuore altrove. Descrivere ciò che si ha dentro, far
partecipare gli altri a ciò che si ricorda, è quasi un’esigenza
biologica per me, la risposta al desiderio di non lasciare che il
tempo cancelli totalmente un momento della mia esistenza per farne
poi, in qualche modo, oggetto di una partecipazione emotiva
comune. Cosa che, credo, non sia socialmente inutile, o
riconducibile soltanto ad un vezzo mirato alla gratificazione mia
o dei miei cari che si riconoscono in certe storie che racconto.
Ma, semmai, l’ambizione a trasferire quella che è un’esperienza
personale nella dimensione di una più ariosa conoscenza delle cose
del mondo. A trasformare una percezione privata in oggetto di
riflessione comune per generazioni diverse dalla mia.
A proposito di percorsi, di gratificazioni e
di cambiamenti, oggi il cinema – alchemico connubio di arte e
industria – la vede operare nella doppia veste di regista e
presidente di Cinecittà Holding. Come vive il rapporto tra l’anima
imprenditoriale e quella culturale dell’universo di celluloide?
Per quanto mi riguarda non cambia nulla. Il disincanto nei
confronti di questo strumento magico e prosaico io l’ho avvertito
sin dal primo film, esperienza a cui devo soprattutto l’intuizione
della imprescindibile fusione tra arte e capitale che inquina il
cinema. Nel pensare una storia e la sua conseguente traduzione in
immagini, infatti, un autore deve continuamente confrontarsi con
il budget, assecondare materia e trattazione alla disponibilità di
denaro. L’immaginario, la fantasia di un regista è quindi
direttamente proporzionale al potenziale economico a cui può far
riferimento.
E allora, come ipotizzare e progettare un risanamento della nostra
azienda cinematografica? Come uscire fuori dal vicolo cieco
dell’assistenzialismo fine a se stesso? E visto il suo incarico
istituzionale, qual è l’obiettivo principale che si prefigge di
conseguire?
Credo he sia già in atto un tentativo di orientamento diverso
della barra del timone mirata a guidare il cinema italiano di
oggi. Esiste un progetto, almeno su carta, indirizzato alla
riappropriazione da parte di autori e produttori, di un ruolo e di
un peso specifico in campo spettacolare. Credo, insomma, che da
qualche anno a questa parte si sia tornati a una sorta di buon
senso che considera il cinema un mezzo di espressione dalla
matrice nobile ma dalla declinazione popolare. Chi produce, chi
realizza, chi racconta delle storie per il grande schermo non può
assolutamente prescindere dal confrontarsi con gli spettatori in
sala. D’altro canto il cinema è uno strumento di comunicazione
popolare che costa miliardi, spesso forniti per l’appunto dalle
casse statali.
E dal punto di vista della rinascita delle
idee, del fermento creativo della nostra scuola di autori, quali
spiragli intravede? E aperti da chi?
Credo che i giovani nomi attualmente in circolazione, insieme agli
sceneggiatori e ai produttori, siano in qualche modo tornati ad
avvertire l’esigenza di raccontare e finanziare un’emozione.
Questa è la via…
Ma allora un buon soggetto può bastare a
garantire la riuscita di un film?
Sì. Sono fermamente convinto che una buona storia sia il perno
essenziale attorno a cui far ruotare il successo di un titolo.
Almeno non se ne può prescindere. E perché la struttura narrativa
sia comunque un ottimo punto di partenza occorre che sia
articolata su delle emozioni, che sono poi riconducibili a tre o
quattro categorie, non di più: un racconto può commuoverti,
divertirti, spaventarti o farti riflettere. Non si va oltre. Poi,
in funzione di questo principio ispiratore, si va anche alla
ricerca di una qualità interpretativa che sia più attenta, più
verosimile. Per questo, allora, gli attori e la direzione degli
stessi si rivelano, giorno dopo giorno, parametri di riferimento
in continua crescita. E avendo attori migliori la scrittura dei
dialoghi deve essere adeguata al loro livello, il che genera e
motiva un riverberarsi di esigenze indirizzato all’ottimizzazione
capillare dei vari comparti che presiedono alla confezione
accurata di un prodotto filmico.
Un cinema affabulatorio libero dalle
ambizioni criptiche e dagli anacoluti intellettuali in voga presso
certa critica?
Direi proprio di sì. Per fortuna oggi possiamo dirci liberati da
quella sorta di spocchia culturale per cui, fino a qualche tempo
fa, un autore cinematografico si riteneva appagato semplicemente
dal fatto che il suo lavoro, magari scarno nella forma ma pregno
di significati sostanziali, piacesse a una ristretta cerchia di
intellettuali, amici suoi o no. Oggi si avverte fortemente,
invece, l’esigenza di raggiungere fasce di pubblico sempre più
allargate. Io stesso sono convinto che solo rivolgendosi una vasta
platea si può ritenere di aver fatto vero cinema.
A proposito di autori di adesso, quanto la
nostra industria può contare secondo lei su nomi quali Crialese,
Garrone, Ozpetek, Muccino?
Quando prima parlavo in temini elogiativi di questa nuova tendenza
mi rifacevo esattamente a questi nomi, senza privilegiarne uno
sull’altro.
Un’ultima questione, a proposito di ieri e oggi della nostra
fabbrica dei sogni. Cinecittà in questi anni è stata soprattutto
il regno della tv Poi sono venuti Martin Scorsese e Mel Gibson a
riportare in auge antichi fasti. Come si riconducono i registi nei
nostri studios?
Questo è il mio grosso cruccio: non vedere operare alle mie spalle
il cinema italiano. Personalmente ho un sogno: ho assunto
l’incarico di presidente della nostra “Hollywood sul Tevere”
avendo le produzioni nostrane attualmente in grado di vantare
un’incidenza sul mercato domestico del 22 per cento, ma con
l’intenzione di lasciarle, alla fine del mandato, con una
percentuale che sfiori almeno il 30 per cento. Con la speranza che
nobili natali di ieri possano perpetuarsi in nuove, blasonate,
famiglie cinefile di domani…
6 giugno 2003
(da
Ideazione 3-2003, maggio-giugno)
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