La grande abbuffata... di cinema
di Priscilla Del Ninno

La cucina, dimensione sulfurea e favolistica, da sempre invitante sacrario intestato alla custodia dei segreti dell’anima e alla sublimazione delle sensazioni del corpo. Spazio metafisico in cui, in un solo assaggio, possono attivarsi reminiscenze ataviche capaci di inebriare percezioni e ricordi, ha da sempre molto in comune con il cinema. A partire dall’esaltazione dei sensi: già, perché i gourmet della vita sanno bene in che modo bearsi, a tavola come in sala, stimolando memorie olfattive. Assaporando magicamente l’esperienza estetica di un film con il palato. Cogliendone, attraverso l’impatto visivo, le atmosfere di un gusto soddisfatto con gli occhi, evocato dagli incancellabili profumi di un’epoca. Non a caso, allora, in quell’alchemico crocevia che interseca percorsi culinari e strade cinematografiche, si sono incontrati storia del costume, epopee gastronomiche, ere di celluloide e l’infaticabile attività dei maestri di sempre. 

A raccontare contaminazioni e fusioni tra i due mondi, Laura Delli Colli che, in due volumi che prendono in prestito dalla settima arte, chicche e intuizioni, ridisegna una singolare mappa della storia del cinema da leggere alla luce delle evoluzioni del gusto. O meglio, da interpretare seguendo un itinerario parallelo che incrocia sentieri eno-alimentari e viaggi cinefili, e che ha per punto d’arrivo l’analisi del cammino sociale ricostruito ne Il gusto in 100 ricette del cinema italiano e ne Il gusto in 100 ricette del cinema internazionale (entrambi editi da Elleu) a suon di banchetti estetici e suggestioni gastronomiche. E se è vero, come ci ricorda l’autrice stessa, che “il gusto del cinema è il gusto della buona tavola, ma anche della convivialità tipica della quotidianità”, è altresì plausibile che il segreto della riuscita del felice matrimonio tra cibo e settima arte è un enigma svelato da personalità del calibro di Mario Monicelli o Federico Fellini, attratti, in maniera e con esiti narrativi diversi, dal rito culinario da loro magistralmente celebrato in indimenticabili sequenze sul grande schermo. E tradotto, come ci ricorda ad esempio la sceneggiatura de I soliti ignoti curata da Alberto Pallotta e corredata dalle interviste a regista e sceneggiatori, nelle tragicomiche sequenze del tentativo di furto con scasso di una delle più accattivanti bande di ladri del cinema di tutti i tempi: criminali improvvisati e ignoti, appunto, che anelano al colpo della vita al Monte di Pietà e finiscono… in cucina. Dove, almeno, si consoleranno con un piatto di minestra, annegando in una pentola di pasta e ceci il sogno impossibile della svolta di vita affidata alla rapina mancata, e poi infranto su un frigorifero. 

Decisamente diverso il registro di Fellini, invece, maestro che pure ha decantato la magia della cucina attingendo al suo potenziale di bellezza, degradazione e forza sensuale. E allora, in quello che è il suo titolo emblematico, La dolce vita, il film simbolo della storia del cinema e icona di un’epoca che ha segnato indelebilmente il costume e la vita nazionale, Fellini prepara e infarcisce una ricetta che, con impareggiabile lucidità, mescola piaceri e morale, sogno e incubo, deliri privati e vizi pubblici, con il cinema e i suoi protagonisti come sfondo. Così, come ricostruito tra le righe amichevolmente biografiche di Federico Fellini firmato da Tullio Kezich, ravioli casarecci e coppe del nettare degli dèi assumono, inaspettatamente, significati etici che vanno ben al di là della semplice mitologia del piatto. E allora, il perlage dello champagne che scorre nei calici a bagnare di effimero la dolce vita notturna dei protagonisti, e la ricetta dei ravioli ricotta e spinaci che Mastroianni ascolta al telefono dalla fidanzata, assumono i lineamenti di evanescenza che contornano il disegno concreto della realtà. E nell’ampiezza tematica e nella verità di elementi che la trama racchiude, proprio quei ravioli diventano metafora del gusto autentico e genuino delle cose, in contrasto con quella frizzante perdita di senso del reale che il mondo fatuo delle notti alcoliche alimenta per tutto il racconto. Per non parlare di Roma, più che un film un banchetto collettivo. 

Una pantagruelica abbuffata che tra lumache e penne all’arrabbiata, rigatoni con le alici e pajata, fino ai cannolicchi cacio e pepe, ricostruisce l’immagine circense, onirica e al tempo stesso popolarissima della capitale vista dagli occhi e attraverso i ricordi di un provinciale arrivato da fuori. Sfilate e prostitute, grandi orge alimentari e notti affollate, sono i tasselli di un affresco dai colori vividi e dai toni intensi in cui i sapori della cucina tradizionale assumono il ruolo di protagonisti quanto gli attori. Più in generale, possiamo tranquillamente affermare che – come ci ricordano libri e film – dal fantasma della fame bellica all’ingordigia distratta e sprecona delle successive stagioni storico-cinematografiche; passando per i maccheroni di Sordi e le abbuffate di Ferreri; come per le “nobili quanto misere” dispense di Totò; o soffermandoci magari sul delirio goloso dei dolci siciliani che concludono la cena opulenta del principe di Salina del Gattopardo di Visconti, per arrivare fino all’esaltazione della pasticceria della vita invocata da Nanni Moretti a suon di peana alla Sacher Torte, il cinema italiano ha degnamente rappresentato fino ad oggi anche un grande Artusi della storia della nostra evoluzione sociale, ricostruendo il cammino di una nazione riassaporato in cucina. 

11 aprile 2003

stampa l'articolo