Teatro. Emma Dante e la Palermo "meravigliosa e devastata"
di Myriam D’Ambrosio

Dov’è luce accecante, lì abita l’ombra. Nelle strade di una città che sottrae fuoco al sole e azzurro al mare, sontuosa con le facciate delle sue chiese, meschina nei vicoli dove il calore scompare e soffia il vento. Superba con le sue palme, fatiscente e scura, all’improvviso, dietro un angolo. Palermo è così, “meravigliosa e devastata”, come la definisce Emma Dante, giovane regista, attrice e autrice di testi (il termine “drammaturga” la spaventa un po’) che porta in scena in questa stagione il suo “Carnezzeria” (“Macelleria” in siciliano). Palermo è la città in cui Emma è nata e tornata dopo anni di pellegrinaggi tra Roma (dove ha frequentato l’Accademia Silvio D’Amico) e Torino, e dove ha creato un laboratorio diventato nel 1999 “Sud Costa Occidentale”, la sua compagnia. “Schifata dal mondo dei provini che segnano la morte del teatro, continuo ad essere atterrita dalla sciatteria, dalla superficialità che vedo in giro, da tanti attori senza identità – racconta Emma – e provando un forte rigetto per un sistema andato in cancrena, ho sentito la necessità di formare qualcosa che mi appartenesse. All’inizio il laboratorio era abbastanza frequentato, poi è subentrata una selezione naturale, alcuni se ne sono andati e sono rimasti quelli che volevano sudare con il corpo e l’anima e procedere in un lavoro fisico”. 

Dopo il successo di “mPalermu”, Premio Scenario 2001, la trentacinquenne donna di teatro propone in prima nazionale una storia che affonda nelle contraddizioni di una terra, le analizza, le espone. Al centro è Nina, sposa-bambina in abito bianco, gravida di colpe altrui, abusata, innocente, silenziosa, mentre altri compiono il suo destino. In scena con Nina sono i suoi tre fratelli, custodi e carnefici. Lei è una proprietà privata, la vittima del rito che sta per compiersi o si è già compiuto, colei che porta tracce indelebili. L’onore e l’apparenza devono essere salvati e la macchia lavata. “E’ uno spettacolo che sa di festa, dove il dolore è raccontato con le luci natalizie – spiega la regista – niente è vissuto come violenza, tutto è abitudine ammantata di normalità e questo rende il fatto ancora più agghiacciante. Nina svela frammenti della sua vita mentre la scena diventa una sorta di altarino di cui lei è la statuetta, una piccola santa dentro la grotta, incastonata nel palcoscenico anche a luci spente”. Nina la martire, la testimone dello scempio che vive sul suo corpo, icona di violenze taciute. 

In “Carnezzeria” la memoria delle tradizioni è forte, ma la processione della santa portata a braccio dai facchini non resta una sterile citazione folcloristica. Il folclore viene sublimato e la tradizione antica è elaborata, personalizzata. Emma lavora sul testo insieme ai suoi attori. Nella fase finale la storia cresce diventando un lavoro di gruppo, dove, all’idea originaria della sua creatrice, si aggiunge l’indispensabile contributo di chi darà faccia, gesto e voce ai protagonisti. Ma il protagonista vero è uno: l’uomo con i mille volti che è capace di assumere, padrone e succube di una realtà che non è mai quella che sembra. “Curo molto il lavoro dell’attore – dice Emma – mi sento come un genitore che aiuta il figlio a realizzare qualcosa che a lui non è riuscito. Nasco come attrice, eppure so che non ce la farei a fare tutto e a ottenere da me stessa quello che voglio da loro sulla scena”. Storie che non nascono da fantasie di intellettuali, difficili da sposare con le esigenze di chi vive il teatro come mestiere. La carne da macello in scena si chiama Manuela Lo Sicco, e i macellai di questa faccenda senza redenzione sono Gaetano Bruno, Enzo De Michele e Sabino Civilleri.

Entrano in scena dalla platea, attraversando il pubblico. Lei, Nina la martire, è stesa, bianca e velata, come il Cristo morto dei venerdì di passione, portata in processione dai suoi tre fratelli. I carnefici sono sempre vittime e questa carnezzeria rispetta la regola: viola chi è stato violato. Nina spalanca la bocca per urlare ma non emette suono. Il dolore muto è diventato follia. La scena è un altare. Lampade votive e lumini rossi illuminano il proscenio. Lentamente prende corpo la verità terribile vissuta dai quattro. Violenze familiari di ogni genere prendono corpo nei ricordi ossessivi da esorcizzare come il buio di stanze maleodoranti dalle imposte chiuse. Come galli in un pollaio i fratelli si azzuffano e la loro lotta ricorda i duelli dei Pupi siciliani, novelli paladini e saraceni tirati dai fili del puparo. Lo spettatore scopre gradualmente l’orrore, ma tutto viene affrontato mantenendo la leggerezza che esalta il tragico. Nina, cresciuta nella penombra, vuole la luce, le finestre spalancate sul giorno. E il nuovo giorno vestito di festa porta l’attesa di un marito scelto per lei dai suoi fratelli per annullare la colpa. Attesa inutile di qualcuno che non verrà mai, che forse nemmeno esiste (ciascuno ha il suo Godot). 

Nina viene abbandonata e la sua disperazione appare lucida. I tre uomini, disgraziati quanto lei, la inchiodano insieme al suo velo. Lei tenta di liberarsi ma il manto nuziale fissato tra i capelli e fermato a terra con un chiodo diventa guinzaglio attaccato malamente a un gardreil. Il cane viene lasciato in autostrada. Vuole fuggire e si strozza. Nina impiccata, Nina devastata, Nina bambina che non conosce l’amore ma lo incarna. Icona del martirio appesa al velo della speranza di una vita diversa che non sa immaginare e che non avrà. Bianca e pendula, sospesa e traballante come una statua trascinata dalla fatica degli uomini. Anime calpestate calpestano un’anima per liberarsi del peso che lei porta nel suo corpo. Bravissimi attori. Splendida regia. Finalmente fortissime emozioni. 

11 aprile 2003

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