La pena di morte secondo David Gale
intervista ad Alan Parker di Pierpaolo La Rosa 

Si chiama “The life of David Gale” ed è l’ultima fatica cinematografica di Alan Parker. Un thriller mozzafiato, mai scontato e banale, che affronta un tema delicato come la pena di morte. E lo fa, con una storia ambientata in quel Texas dove, nel solo 2002, ha avuto luogo la metà delle esecuzioni effettuate in tutti gli Stati Uniti. Interpretato, tra gli altri, dal due volte premio Oscar Kevin Spacey, da Kate Winslet e Laura Linney, il film è appena uscito nelle sale italiane. Abbiamo incontrato il regista, autore di pellicole ormai passate alla storia. Qualche titolo? “Fuga di mezzanotte”, “Saranno Famosi”, “Birdy – Le ali della libertà”, “Mississipi Burning”, “Evita”. 

Signor Parker, che tipo di difficoltà ha incontrato nella realizzazione di un film del genere, nell’America che quasi quotidianamente uccide nelle carceri…

Certamente non è stato semplice, e l’appoggio degli Studios è arrivato perché in realtà si tratta di uno splendido thriller che parla anche della pena di morte. Può sembrare forse uno scherzo del destino, ma lo Stato del Texas si è dimostrato molto collaborativo. D’altra parte, la loro posizione è chiara: sono tenuti ad applicare la legge e quindi non hanno ragione di essere imbarazzati. Comunque, è difficile realizzare negli Stati Uniti una pellicola che abbia un contenuto altamente politico. 

Crede che “The life of David Gale” possa stimolare ulteriormente negli Usa un dibattito che conduca, magari, all’abolizione della pena di morte? 

Me lo auguro. Probabilmente non avverrà da qui a cinque o dieci anni, ma è evidente che si tratti di un tema sul quale l’America è isolata rispetto a tutte le altre società civili.

Come è stato lavorare, in particolare con Kevin Spacey e Laura Linney?

E’ stato davvero un piacere: sono prima di tutto attori di grande talento e, poi, parte integrante del cosiddetto star system; dalla loro, hanno inoltre uno straordinario bagaglio teatrale e ciò li ha resi estremamente generosi non soltanto l’uno verso l’altro, ma anche nei miei riguardi e nei confronti dell’intero staff. Proprio questa origine di interpreti teatrali li fa diversi dal cliché a cui siamo abituati. 

In che modo è avvenuta la scelta degli attori? 

Nel momento in cui decide di produrre un film, Hollywood è interessata principalmente a tre cose: la sceneggiatura, quanto costerà e quali saranno gli interpreti. Ho una tale esperienza che conosco benissimo le procedure a cui mi devo sottoporre; c’è una sorta di gioco delle parti, a cui non posso sottrarmi, e questo gioco passa attraverso tutti i nomi che la produzione propone. Del resto, la scelta degli attori preoccupa terribilmente gli Studios a Hollywood. 

Ci può spiegare che importanza rivestono le colonne sonore nei suoi film?

Senza dubbio, la musica ricopre un ruolo fondamentale. Nel caso di “The life of David Gale”, è stata una esperienza straordinaria: la colonna sonora è firmata infatti dai miei due figli, che hanno peraltro estrazioni diverse. Uno è musicista contemporaneo, l’altro ha invece una formazione classica. Il primo ha dato questo ritmo contemporaneo al racconto del thriller, proprio per enfatizzarne le caratteristiche; l’altro si è dedicato alle parti più orchestrali, emotive, che parlano al cuore. Hanno lavorato insieme, cosa straordinaria visto che non lo fanno mai. Forse, stavolta dovevano rispondere al regista che era anche il loro padre.

Quali sono i suoi programmi futuri?

Come forse saprà, per me decidere un film e poi realizzarlo è un processo lunghissimo: in 28 anni di attività ne ho fatti 14, in media uno ogni due anni. E sembra che tale processo si allunghi proprio adesso, con il passare del tempo. Io procedo più o meno sempre nello stesso modo: arrivo sino alla fine della realizzazione di una pellicola, in seguito la promuovo incontrando i giornalisti, ascolto le domande e, infine, affronto il successivo impegno cinematografico. 

28 marzo 2003

pplarosa@hotmail.com

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