Gran Bretagna. Tutta la Tv è paese
di Paola Liberace

Leggere l’articolo di Tobias Jones, apparso due domeniche fa in apertura dell’inserto culturale del Financial Times, fa un certo effetto. Non soltanto perché le sue accuse al panorama televisivo italiano sono violente e non molto argomentate (ritornano, tra gli altri, una serie di luoghi comuni come l’attaccamento degli italiani alla famiglia e la pratica trasformistica), non soltanto perché sembra che si salvino solo le Tv locali - in una delle quali, Teleducato, guarda caso Jones lavora - ma anche per il legame quasi esplicitamente finalistico, impossibile da ignorare, tra queste accuse e il tormentone anti-premier. Del resto, proprio il Financial Times, negli ultimi due anni, si è più volte espresso contro Berlusconi, con una stigmatizzazione che oltrepassa i meri confini politici per spingersi nel giudiziario e poi nel personale, (il fatto che il FT abbia pubblicato, solo qualche giorno dopo, un articolo critico sull’interesse di Emilio Gnutti – presentato come un uomo del presidente del consiglio – per la Fiat, non può non apparire significativo).

Ma dopo aver scorso le righe accanite di Jones, magari rinforzate da quelle altrettanto velenose di Nick Cohen sull’Observer (che intitola il suo articolo di domenica “Britain isn’t Italy… yet”, ci si domanda soprattutto quale televisione abbiano presente i due giornalisti britannici, per tacciare quella italiana di “porno soft” , per accusarla di essere vecchia e arretrata, oltre che legata a doppio filo alla politica, per bollarla infine come “un inferno”. Con quale paradiso televisivo hanno dunque a che fare gli inglesi? In realtà, la realtà televisiva britannica si confronta con problemi del tutto analoghi a quella italiana. Anche in Gran Bretagna, l’offerta televisiva tematica e a pagamento, alternativa a quella generalista e commerciale, ha subito nell’anno passato un brusco ridimensionamento, con la crisi tra le altre dell’emittente iTv Digital. Anche in Gran Bretagna il successo dei canali più seguiti è legato alle sorti di un tycoon dei media, Murdoch, sul quale è inutile ogni altro commento. Anche in Gran Bretagna le trasmissioni più in voga dell’ultimo quinquennio sono stati i reality show, fino alla spudorata esibizione delle beghe coniugali in un programma come “Together again”. E anche la Tv britannica, ebbene sì, cede volentieri ai pruriti delle storie che fanno audience (la prima ad avanzare una proposta a Monica Lewinsky per impiegarla come giornalista, nel 2000, è stata l’inglese Channel Five).

Forse queste caratteristiche influiscono meno che da noi su pensieri e umori del pubblico? In realtà, la Tv britannica sembra condizionare la vita e le scelte dei cittadini non meno di quanto faccia nelle altre realtà nazionali. Un sondaggio condotto qualche anno fa dall’ente Tv Licensing, che si occupa della raccolta del canone, parlava di percentuali rilevanti (46%) di inglesi che, appena rientrati in casa, prima ancora di soddisfare qualsiasi istinto parentale o fisiologico, accendevano la Tv, per poi lasciarla accesa durante i pasti serali (33%), lasciandosi condizionare dall’apparecchio televisivo nella disposizione dell’arredamento (75%), seguendo pedissequamente le sue indicazioni persino nell’organizzazione del tempo libero (52%). 

Certo, numerosi sono gli inglesi che considerano la Tv una fonte di istruzione (91%): e senz’altro spicca, nel panorama televisivo britannico, un impegno culturale sconosciuto ad emittenti di altre nazionalità. Fin troppo: come giustamente osservava qualche anno fa Gillo Dorfles in occasione della Festa del Libro 2001, la televisione inglese, per essere l’unica in Europa a sforzarsi di fare cultura, ha finito per diventare noiosa ed eccessivamente di nicchia. Eppure, anche nella pettinata Gran Bretagna si levano voci critiche che vorrebbero spingere per una più alta qualità dei programmi: la coalizione Third World & Environment Broadcasting Project, nata nel 1989 per lo sviluppo e il sostegno ambientale, preme da allora per una copertura più ampia e di maggiore qualità, riguardo i soggetti internazionali, sulla televisione britannica. Secondo l’ente, la copertura di questioni internazionali "scottanti" nel 2001 è caduta al livello più basso che abbia mai registrato in 12 anni di monitoraggio: quasi tutti i programmi sul tema sono stati dedicati al turismo o al reality-show, senza concentrarsi sulla forza documentaria, di testimonianza della condizione dei paesi poveri e sottosviluppati, che tradizionalmente ha rappresentato il nerbo di questa emittenza. "Il documentario internazionale" conclude il rapporto "è praticamente morto". Che basti scavare poco, e senza troppo insistere su questioni extratelevisive - che non fanno che indebolire gli argomenti, anziché rafforzarli - per scoprire che tutta la Tv è paese? 

31 gennaio 2003

pliberace@hotmail.com

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