I Videogiochi dall'artigianato all'industria
di Andrea Mancia


Un mercato da oltre venti miliardi di dollari all’anno, in crescita anche quando altri settori del “digital entertainment” sembrano stentare: con i videogiochi, ormai da qualche anno, non si scherza più. Soprattutto da quando la più potente azienda nel settore dell'elettronica di consumo (Sony) e la più grande software company del mondo (Microsoft) hanno deciso di entrare con prepotenza in questo business. A contendere loro la supremazia, almeno per quanto riguarda le console dell’ultima generazione, è rimasta soltanto la giapponese Nintendo, unica sopravvissuta tra le imprese che hanno fatto la storia dei videogames. A margine, con un volume d’affari più ridotto, ci sono i videogiochi per personal computer, ancora molto importanti per la sperimentazione delle nuove tecnologie di sviluppo (soprattutto grafiche) e sempre insostituibili per il gioco multi-player in rete locale e su Internet.

Sono lontani i giorni in cui i videogiochi erano progettati, scritti e commercializzati da una sola persona. Oggi le grandi società del software ludico pianificano sinergie con cinema e televisione (spesso all’interno della stessa holding), offrono contratti milionari ai gruppi rock più alla moda, organizzano campagne marketing che fanno invidia ai produttori di scarpe da ginnastica. Non c’è più spazio per l’improvvisazione quando da poche migliaia i dollari diventano miliardi. Anche perché una produzione di oggi richiede l’utilizzo di centinaia di persone: programmatori, grafici, musicisti, esperti di effetti sonori, sceneggiatori, testers. Senza contare marketing, pubblicità e distibuzione.

Tra i grandi programmatori “one-man-band” che hanno praticamente inventato il mito dei videogames negli anni Ottanta, infatti, l’unico rimasto sulla cresta dell’onda è Sid Meier (F-15 Strike Eagle, Pirates!, Civilization, The Sims), abbastanza eclettico ed “imprenditore” per resistere al cambio di paradigma. Altri, come lo psichedelico Jeff Minter (Gridrunner, Revenge of the Mutant Camels), negli anni Novanta si sono limitati alla rivisitazione grafica di alcuni classici intramontabili (Tempest 2000, Defender 2000). Ma dove sono finiti le migliaia di talenti che con un limitato budget a disposizione hanno infiammato la fantasia di adolescenti di ogni età? Spesso continuano a lavorare nel settore con incarichi di responsabilità, come Eugene Jarvis (Defender, Robotron 2084) che – dopo aver abbandonato la Williams – è stato il responsabile dello sviluppo di Star Trek Starfleet Academy (Interplay) e Star Wars: Shadows of the Empire (LucasArts). Ed Rotberg, invece, che si era occupato per Atari della conversione “casalinga” di alcuni capolavori come Missile Command, Asteroids, Centipede e Battlezone, è praticamente scomparso dalla scena, se si esclude il poco fortunato Spaceward Ho! del 1996. Come poco fortunate sono state le ultime produzioni di David Braben, diventato celebre negli anni Ottanta con giochi sensazionali come Elite e Virus, ma che recentemente sembra riuscire a creare soltanto “remake” delle sue opere precedenti (Frontier: Elite 2, Frontier: First Encounters, V2000).

Più fortunata la carriera dei fratelli inglesi Chris e Tim Stamper, geniali fondatori della "Ultimate Play the Game" che con Jet Pac, Atic Atac, Knight Lore e Alien 8 hanno praticamente monopolizzato i videogames di alta qualità per il Sinclair ZX Spectrum per poi, con la Rare, sfornare almeno quattro titoli della fortunatissima serie Donkey Kong per le console Nintendo. Il “principe” della Activision, David Crane, che giovanissimo aveva stupito il mondo con il suo Pitfall e con le versioni per Atari VCS2600 di Ghostbusters e Decathlon si è invece dedicato, con scarso successo, al Gameboy.

Storie diverse, insomma, ma che dimostrano come l’epoca dell’artigianato sia ormai tramontata per fare spazio ad una pianificazione commerciale di altissimo livello, necessaria quando si ha a che fare con un volume d’affari come quello che caratterizza oggi il mercato dei videogiochi. Si è persa, però, quella straordinaria fucina di creatività rappresentata dalla possibilità di “scrivere un gioco in una sola notte”, come ha dichiarato Jeff Minter in una intervista di qualche anno fa, senza curarsi troppo della reazione dei media di settore e della massa dei consumatori ma piuttosto andando, sempre e comunque, alla ricerca di spunti originali e del “Sacro Graal” della giocabilità. Sarà forse per questo che, quando non escono giochi insolitamente brillanti (Ico e Silent Hill 2 per Playstation 2, Neverwinter Nights per pc, tanto per citarne qualcuno) i veri videogiocatori preferiscono rifugiarsi nella nostalgia del “retrogaming”, sfruttando i loro modernissimi personal computer per riprovare, grazie agli emulatori, le emozioni di un’infanzia perduta. Ma questa è un’altra storia.

anmancia@tin.it

29 ottobre 2002

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