Salvate il soldato giornalista
di Tiziana Lanza


Televisioni in guerra e giornalisti schierati in prima fila: all’alba del terzo millennio si combatte anche con queste armi e i giornalisti somigliano sempre di più a soldati. Anche i leader devono confrontarsi con questa nuova realtà e gli americani non arrivano certo impreparati. Negli Stati Uniti la comunicazione è studiata in tutti i suoi aspetti al punto che esistono centri che studiano strategie di comunicazione in situazioni particolari come le guerre. Oggi, tuttavia, anche il mondo arabo ha la sua televisione: Al Jazeera. Nata nel 1995, essa ha operato una vera e propria rivoluzione dell’informazione per quei paesi abituati a ricevere le notizie tramite le news del mondo occidentale. Al Jazeera si proclama tv libera e laica con il compito fondamentale di dire la verità a tutti i costi. Ma quale sia poi la realtà è un altro discorso. Qualche giorno fa ha trasmesso il messaggio del capo di Al Quaida, Osama bin Laden, mettendo in apprensione il mondo dei media americani. Sembra che bin Laden sia ricorso alla sua troupe televisiva personale per realizzare il video. Dal canto loro gli americani non sono rimasti insensibili a particolari a dir poco strani come l’orologio americano al polso del capo della più grande organizzazione terroristica. Semplice propaganda anti-americana o istruzioni in codice per nuovi attentati terroristici? Nell’incertezza, gli americani hanno deciso di filtrare tutto quello che verrà mandato via etere. Non ci sorprende che in questo clima si sia parlato addirittura di una futura apparizione del presidente americano Bush sulla tv satellitare araba.

Nel frattempo abbiamo assistito a veri e propri atti eroici da parte di giornalisti, disposti a rischiare la vita pur di raccogliere una informazione in più, sfuggendo al controllo dei talebani. E’ quello che è successo alla giornalista inglese Yvonne Ridley, tenuta in ostaggio per diversi giorni dagli “studenti di teologia”, e al giornalista francese Michel Peyrard di Paris Match. Non vanno, infine, dimenticate le lettere all’antrace recapitate anche presso alcune testate giornalistiche americane. Ma per il giornalista i pericoli non finiscono qui. Come altri operatori quali poliziotti, pompieri soccorritori e medici, il giornalista può sviluppare una serie di disturbi psicologici. “Aiutare fa male”: non è un’affermazione cinica ma una realtà e a sostenerlo è lo psichiatra americano F.M. Ochberg. Il giornalista che raccoglie testimonianze sul campo può sviluppare una traumatizzazione vicaria (la sigla in americano è Stsd e vuol dire “Secondary Traumatic Stress Disorder”). I sintomi, che possono insorgere anche a qualche tempo di distanza, sono: paura, ricordi indesiderati ed eccessiva preoccupazione per il dolore altrui. Altre volte, il prezzo da pagare è un eccessivo senso di colpa per essere sopravvissuti.

Ochberg ha fondato una organizzazione, “Gift from within” che raccoglie fondi per aiutare le persone traumatizzate. Il medico americano, che oltre ad essere uno psichiatra è anche giornalista, collabora con il “Dart Center for Journalism and Trauma”, un centro americano dove si studiano strategie di comunicazione in situazioni critiche come guerre, attentati, catastrofi naturali, abusi sessuali. Il direttore del Centro Roger Simpson, professore associato in scienze della comunicazione all’Università di Washington, ha recentemente scritto un libro in collaborazione con un altro esperto, William Coté, dal titolo “Covering Violence” (Riportare la violenza), una vera e propria guida etica per i giornalisti che devono confrontarsi con le vittime della violenza di qualunque genere, guerre incluse.

26 ottobre 2001

tizilanza@hotmail.com



 


stampa l'articolo