Il libro. L'insostenibile pesantezza del nulla
di Federico Zamboni

Lo sfondo è quello (dimenticato? metabolizzato?) della seconda metà degli anni Ottanta. Gli anni del denaro facile - soprattutto per chi ne aveva già chissà quanto, accumulato chissà come - e dell'ascesa sociale fulminea. Gli anni in cui l'addestramento del cittadino occidentale veniva completato con la somministrazione di dosi urto della droga legalizzata più in voga e più difficile da abbandonare: il consumo forsennato. E se questo è lo sfondo (dimenticato? rigettato?) il palcoscenico, ideale per questo genere di sconfitte, è la metropoli newyorkese, della cui smisurata insensatezza dice già molto il fatto che il suo classico soprannome - la Grande Mela - non si sa più chi lo abbia inventato e perché. Ma a chi volete che importi, del resto? Oramai, anche questa è nulla di più che un'abitudine come un'altra, giusto un ennesimo marchio commerciale a cui si chiede solo di funzionare. O volete dire che sapreste spiegare per filo e per segno il motivo per cui la "mitica" Coca Cola si chiama proprio così? E a chi volete che importi, del resto? A chi volete che importi se voi siete davvero così preparati sul nulla?

E su questo sfondo, e su questo palcoscenico, si muove (si aggira) il giovane, e bello, e ricco, e vacuo, e schizoide, Patrick Bateman, rampollo di una ricca famiglia ed egli stesso impegnato ad arricchirsi ulteriormente con i traffici folli del mercato borsistico, dove i titoli azionari schizzano alternativamente verso l'alto o verso il basso, e dove tutti sono dei piccoli geni fino a quando, in modo così strano, così "imprevedibile", la catena di sant'antonio non si interrompe di colpo e l'ultimo genio - quello che aveva sì comprato a una cifra pazzesca, ma che contava di rivendere a un prezzo ancora più alto - fa la figura del fesso e brucia, in un amen, qualche milione di dollari. Ma intanto, finché la giostra prosegue, finché la fila dei gonzi rimane così lunga da sembrare infinita, tutto quello che si deve fare è essere lì, pronti a sfruttare la situazione, qualunque essa sia, a proprio vantaggio. Accumulare denaro proprio muovendo denaro altrui. Diventare ricchi prestando assistenza ad altri, già ricchi, in vena di speculare sul rialzo o sul ribasso di qualsiasi, fottuto titolo azionario in giro per il pianeta. Quanto al resto del tempo, si tratta più che altro di trovare modi adeguati, e ovviamente costosi, di celebrare il proprio successo: con vestiti alla moda, con locali "à la page", con case & cibi & bevande di lusso, con gingilli tecnologici perennemente all'avanguardia e infine, da attori di grandissimo scrupolo e di infimo talento, con tutto il meglio del meglio per la cura del corpo, tra palestre e centri estetici, tra macchinari per il body building e lettini per l'abbronzatura, tra integratori dietetici di ogni tipo e cosmetici di ogni sorta. Patrick Bateman, e i suoi degni colleghi, vivono così - e vivendo così è questo che diventano: animali famelici dal pelo lucido e dai denti perfetti; primi esemplari, già troppo numerosi, di una razza perversa, pericolosa per se stessa e per gli altri: una razza addestrata - come si conviene in questo mondo che preferisce di gran lunga la velocità alla comprensione, e lo sfruttamento del sapere alla conoscenza autentica - a compiere atti tanto colmi di abilità quanto privi di senso.

Patrick Bateman si racconta in prima persona. La sua percezione della realtà è innanzitutto, e pressoché esclusivamente, una percezione visiva: quando incontra qualcuno, non importa se uomo o donna, la sua attenzione è assorbita per prima cosa dall'aspetto e, in particolare, dall'abbigliamento. "Lui, Tim Price, indossa un completo a sei bottoni di Ermenegildo Zegna, in misto lana e seta, camicia di cotone di Ike Behar con polsini alla francese, cravatta Ralph Lauren di seta e scarpe dei Fratelli Rossetti con mascherina allargata". La medesima attenzione, d'altro canto, Patrick Bateman la rivolge a se stesso: "Io ho indosso un completo di lana pied-de-poule, coi pantaloni plissettati, di Hugo Boss, una cravatta di seta, anch'essa di Hugo Boss, una camicia di cotone di Joseph Abboud e scarpe dei Brook Brothers." E in tutto questo, ovviamente, la chiave di volta è tutt'altro che estetica: quello che Bateman controlla di continuo, con maniacale puntiglio e inverosimile erudizione, è il rapporto tra la sua personale apparenza e quella degli altri. Il costo degli oggetti indica la capacità di spesa. Il modo in cui essi vengono scelti, e assortiti, indica la capacità di cogliere tempestivamente le mutevoli tendenze del microcosmo a cui si appartiene. 

Che il libro non sia un thriller è ovvio: Bateman è certamente uno psicopatico e un assassino efferato, ma ciò che conta davvero non sono mai le azioni che compie, per quanto terribili. Ciò che conta davvero è l'alienazione sempre più profonda e irreversibile che gli si annida dentro e che lo prosciuga di ogni goccia di umanità. Le persone, e ciò che esse fanno (sono), non lo investono mai in quel modo complesso, e complessivo, che è la prima e irrinunciabile caratteristica di ciascuna esperienza degna di essere vissuta: ciò che Bateman percepisce sono i singoli aspetti, i dettagli separati e frammentari, le inquadrature fini a se stesse. Al di là di qualche sprazzo di vitalità residua, troppo incentrato sulla intermittente dinamica desiderio/soddisfazione per condurlo ad una vera sintesi e ad una qualsivoglia armonia, la realtà gli risulta sempre più remota ed estranea. A forza di non comprendere nessuna delle ragioni profonde per cui le cose accadono, Bateman smarrisce l'idea stessa che negli avvenimenti, e nelle persone, vi possa essere un senso o almeno, se non altro, qualcosa da preservare e di cui preoccuparsi.

Gli avvenimenti si riducono a sequenze sconnesse. Le persone si riducono dapprima a comparse e poi a fantocci. La noia diventa via via insoddisfazione, e poi angoscia, e infine odio. Se fosse in una stanza chiusa (una cella? una camera di manicomio?) Patrick si scaglierebbe contro le pareti e cercherebbe di abbatterle. Se fosse in una casa in preda alle fiamme, si getterebbe a capofitto da una finestra. Se fosse in una nave che affonda, così piena d'acqua da essere lì lì per inabissarsi, si lancerebbe in mare. Ma Patrick Bateman è chiuso in luoghi molto peggiori e assai più difficili da abbandonare: Patrick Bateman (il giovane, e bello, e ricco, e vacuo, e schizoide) è immerso nella sua psiche incrinata che non ha più nulla da offrirgli. Niente spiegazioni, niente speranze, niente che porti un po' di pace o che almeno la prometta, in chissà quale punto da qui all'orizzonte. E allora, in mancanza di meglio, non gli resta che scaricare un po' della sua frustrazione su chi gli sta intorno. Torturare, causando sofferenze inaudite. Uccidere, tanto per chiudere la partita. Fare qualcosa che almeno sia insolito, in attesa della fine di tutto. 

8 giugno 2001

zambonifed@usa.net

Bret Easton Ellis, American Psycho, Bompiani, 2001, pp. 439, lire 16.500.




 




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