Nanni Moretti e quei perché senza risposta
di Luca Pesenti


Riecco la storia di Moretti Nanni, già splendido quarantenne, già comunista in crisi di identità, già nevrotico ossessionato da scarpe e Nutella, ora vera e propria icona del post ideologico, capace in un colpo solo di metter d'accordo (quasi) tutti. Quasi, perché nel coro di osanna che unisce il corrierista Kezich e la "repubblichina" Aspesi, il nicciano Stenio Solinas ("Il Giornale") e il cattolicissimo Francesco Bolzoni ("Avvenire"), qualcuno doveva pur fare eccezione. Sennò c'era davvero da preoccuparsi, ché se una cosa è troppo bipartisan tira aria di combine e di tangentopoli giornalistico-culturale. E chi poteva sgarrare all'universalismo morettofilo se non quei ragazzacci del Foglio, non foss'altro che per tener fede all'imperativo della scorrettezza chic à la Barney. Di certo lì l'hanno visto e poco apprezzato. Questione di gusti, ovviamente. Mica come quel Diego Minonzio nella pagina 2 di Libero, che antipatizza un po' vigliacco mostrando di voler azzannare il Moretti e non il suo film. Anche perché alla fine, leggendo e rileggendo, si capisce proprio che a vedere l'odiosa pellicola il Minonzio probabilmente non c'è andato per niente. Un po' come monsignor Ermanno Carnevali, vicario del vescovo di Ancona (dove fu girata la fatica morettiana), che c'ha fatto su mezza omelia domenicale. Salvo poi cristianamente pentirsi e candidamente emmettere la colpa: "Quel film non l'ho proprio visto". Assolto il vescovo, un po' meno il liberista Minonzio, che oltre tutto si trova anche la smentita in casa. Sfoglia e risfoglia, si scopre infatti a pagina 29 una scheda malandrina firmata Giorgio Carbone, il quale nuovamente apologizza e quasi esulta per il film "bello, lucido, dolce, malinconico e tagliente". Un vero monumento al bipartisanismo militante, niente da dire. Ma Feltri se ne era accorto?

Di certo non è "uno dei più bei film della storia del cinema italiano", come ha esageratamente lecchinato Enzo Siciliano su Repubblica. Ma, tanto per cominciare a parlar serio, La stanza del figlio resta davvero un film elegante e commovente. Misurata e struggente riflessione sulla morte, il dolore, la perdita. Insomma, presa di coscienza finalmente adeguata e senza troppa ironia della domanda ultima dell'uomo, quella che più o meno ognuno di noi si è posto e prima o poi di porrà: "Che senso ha tutto questo soffrire? Che senso ha questa vita?". La domanda delle domande, l'emergenza del Leopardi che è dentro tutti, così poco à la page da essere ormai censurata d'ufficio prima ancora che si ponga, necessariamente ridotta al privato e risolvibile solo rimuovendo, psicologizzando, stoicizzando. Fa così anche Moretti, in fondo in fondo. Ma almeno lui lo ammette, di non esser capace di risposte. Lui che, guarda un po' il destino, nel film è psicologo senza cedimenti sugli schianti altrui e d'un tratto schianta di fronte all'estremo cedimento. Salvo poi dirci che la vita è bella lo stesso, che domani è un altro giorno, che da qualche parte c'è sempre la possibilità di andare avanti e dimenticare. Ma perché, vien da chiedergli? E lui finisce per negare la risposta, teoreticamente e disperatamente. Insomma, la domanda avrà anche un senso, ma purtroppo la risposta non c'è.

Film melodioso e tragico, molto meglio del Moretti cinico e un po' blasè di tutti i suoi migliori film. Meglio del Moretti tutto ombelico e grattamenti di barba. Ma che angoscia appena scorrono i titoli di coda. Angoscia per chi come lui (ma viene in mente anche un Bobbio tra i milioni d'altri citabili) non si vuole attaccare a nulla se non al filo tenue di una impossibile speranza mondana. Per chi alza bandiera bianca ma intanto non si arrende al proprio limite umano. Perché un figlio può morire a ognuno dei milioni di padri e di madri di questa terra. Ma tu che credi puoi sempre domandare il senso sapendo a Chi domandare. O magari ti incazzi, ma sai benissimo con Chi prendertela. Al limite hai il privilegio di bestemmiare sapendo di peccare duro, perché sai benissimo che stai bestemmiando contro Qualcuno. Ma Moretti e forse anche la schiera di quelli che lo hanno apologizzato, che se ne fanno di quel dolore? Lo scaricano per un po'. Lo scaricano contro sé stessi, contro i più prossimi, anche i più amati e ben voluti. Perché quel dolore è davvero invincibile. Perché di fronte a quel dolore non si può far altro che essere soli, e allora le famiglie si crepano, a volte si rompono perfino. Si esce dalla sala con una tristezza gelata nel cuore. Perché Moretti è l'orizzonte ultimo oltre al quale l'uomo moderno non riesce ad andare. Il limite insuperabile di un'umanità contratta, capace di fare grandi film come questo, ma incapace di trovare risposte al proprio desiderio di felicità e di infinito. Se non in una solitudine inesorabile e una speranza appena accennata.

20 marzo 2001

lucapesenti@tin.it



stampa l'articolo