Luci e ombre della crescita americana
di Gianfranco Genovesi

L’economia degli Stati Uniti ha ripreso a correre, finalmente. Per molti analisti sembra una realtà incontrovertibile sulla base dei dati forniti da vari istituti di ricerca tra cui il NABE (National Association for Business Economics). La previsione di crescita del Pil statunitense è pari al 3%, nel 2003, e 4,5%, e nel 2004. I consumi privati dovrebbero aumentare del 3,7% e gli investimenti aziendali del 10%. La disoccupazione dovrebbe scendere dal 6% al 5,8% mentre le esportazioni salire del 7,5%. Altro indicatore confortante della robustezza della crescita è relativo agli ordini di acquisto nel portafoglio delle aziende, significativamente aumentati, che dimostra la ricostituzione delle scorte di magazzino. L’indice Ism relativo alla fiducia delle aziende manifatturiere, calcolato da Reuters, ha superato quota 62,8: una vetta non più raggiunta dal 1983. Il quadro complessivo sembra ispirare ottimismo, quindi, e prelude ad una speculare crescita di Eurolandia che ha fatto registrare una buona performance nell’ultimo trimestre con una crescita dello 0,4 %. Tutto bene?. Se non ci fosse qualche ombra sulla ripresa in atto negli Stati Uniti non si comprenderebbe il fatto che l’euro stia superando ogni record nei confronti del dollaro, oggi oltre la soglia di 1,21 per un euro.

Ma quali sono queste ombre? Si tratta della constatazione che l’economia americana è fortemente sbilanciata dal punto di vista finanziario. In particolare, gli analisti finanziari e gli economisti puntano l’indice sui cosiddetti “deficit gemelli”. Sono il deficit delle partite commerciali e il deficit di bilancio. Il deficit commerciale, ovvero il fatto che gli Usa importino di più di quanto esportino, ha superato 525 miliardi di dollari. Il deficit interno ha superato i 600 miliardi di dollari, soprattutto per effetto delle spese militari. Se è vero che questi squilibri esistono da molti anni, la preoccupazione, oggi, sta nel fatto che il dollaro non è più la sola valuta di riserva del mondo. Negli ultimi venti anni la moneta americana ha rappresentato la valuta universale utilizzata in tutte le principali transazioni, in particolare sul mercato delle materie prime. Ciò ha fatto sì che nei forzieri di molte Banche Centrali la valuta di riserva fosse espressa in dollari o titoli del Tesoro americano. Ne è derivato l’afflusso di enormi risorse finanziarie verso gli Stati Uniti che hanno costantemente equilibrato il deficit delle partite correnti. Oggi i tassi di interesse offerti sono più bassi di quelli europei, le tensioni della guerra con l’Iraq determinano incertezza, unita all’allarme per il terrorismo globale. Gli Stati Uniti attraggono meno capitale di prima.

Siamo di fronte ad un evento nuovo: l’economia che riprende, fortemente sbilanciata verso l’esterno, ma senza le premesse che hanno consentito, sino ad ora, che il sistema economico americano si rafforzi, pur rimanendo indebitato. Uno dei punti di forza, che fa sperare che non ci siano contraccolpi, è identificabile nella strepitosa produttività dell’industria americana, ovvero nel basso costo per unità di prodotto che rende competitivi i prodotti statunitensi. Ciò nel medio periodo aumenterebbe i profitti, determinando delle eccezionali performance delle aziende quotate a Wall Street. Se si innescasse un ciclo positivo di borsa ciò attrarrebbe capitali stranieri. Se si unisse l’auspicata ripresa a tutto tondo dell’Europa (della Germania, in particolare) e il Giappone uscito, sembra, dal letargo si determinerebbe un riequilibrio delle partite correnti americane (in quanto le esportazioni Usa aumenterebbero). Inoltre, con una pacificazione dell’Iraq in tempi ragionevoli si potrebbe immaginare uno scenario di forte e solida ripresa dell’economia mondiale. Le borse, che hanno già scontato gli indici al rialzo dell’economia americana, rimangono molto caute; per il momento la previsione più accreditata è quella di un euro che tenderà a stabilizzarsi ad oltre 1,25 sul dollaro.

Si tratta di un dato preoccupante perché a differenza di quella americana l’industria europea (ed italiana in particolare) soffre di una minore produttività e di un costo per unità di prodotto crescente. L’Europa deve affrontare delle riforme radicali: sistema pensionistico, ricerca e sviluppo, riduzione dei divari interni, flessibilità di sistema. In questo senso la decisione di Ecofin di adattare il “patto di stabilità” alle condizioni contingenti è una decisione giusta al momento giusto. E’ vero che i principi e le regole sono a fondamento della civile convivenza tra Stati, così come tra persone. Ma di regole troppo rigide si può anche morire.

5 dicembre 2003
 

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