Il Sud e l'integrazione europea

Tra poco meno di un anno, il 13 giugno del 2004, sarà eletto il nuovo Parlamento europeo, in cui entreranno anche i rappresentanti dei dieci nuovi paesi ammessi. Si celebrerà un momento d’esaltante successo per l’Europa che così porterà quasi a compimento il processo di riunificazione. Nell’euforia generale però si pongono problemi particolari, soprattutto per quei paesi – l’Italia innanzitutto – che presentano situazioni interne complesse, che debbono fare i conti con economie a due velocità. Il nostro Mezzogiorno trarrà vantaggi dall’integrazione o teme l’accentuarsi delle disparità che già oggi caratterizzano la condizione delle due aree italiane?

C’è una risposta ricorrente a questa domanda: l’integrazione europea offre occasioni e presenta rischi, sta a noi meridionali cogliere le prime o restare vittime dei secondi. È banalmente vero, però non guasta svolgere qualche approfondimento alla vigilia di un evento così importante. Da analisi recenti emerge che le dimensioni economiche del divario tra Nord e Sud dell’Italia sono confermate dalle dimensioni relative del reddito pro capite. Fatta pari a 100 la media europea dell’Unione a 25 paesi, il Mezzogiorno si colloca a quota 74 ed il Centro-Nord a quota 134. Non esiste nell’ambito dell’Unione europea un caso nazionale comparabile, non esiste cioè un’altra nazione europea che abbia la medesima radicale contrapposizione tra due aree: la prima omogeneamente ricca e la seconda omogeneamente povera. La stessa Germania, che pure presenta una radicale differenza tra la regione orientale e quella occidentale, non raggiunge un fenomeno dualistico tanto marcato. La Germania orientale ha un reddito medio pro capite quotato ad 83 mentre quella occidentale arriva a 123: la prima è più ricca del nostro Mezzogiorno mentre la seconda è più povera del Centro-Nord italiano.

Nel 2002 il reddito medio pro capite dell’Unione europea è stato di 20.515 euro; il reddito medio dei dieci paesi nuovi ammessi si è fermato a meno della metà, a 9.935 euro, cioè al 48,4 per cento della media europea. Va però considerato che quei paesi formano l’area che negli anni Novanta ha presentato una dinamica economica sostenuta ed essi possono generare un fenomeno di crescita in grado di rivitalizzare l’intero tono dell’economia europea. Scaturisce da queste circostanze l’ipotesi avanzata dal governo inglese di concentrare la finanza straordinaria per lo sviluppo economico disponibile nell’Unione a sostegno della crescita di quei dieci paesi e di non attribuire più risorse europee alle regioni povere incluse nei perimetri nazionali degli Stati. La ricchezza media sarebbe indicata da un livello di reddito pro capite attestato al 90 per cento della media europea.

È certo che questa ipotesi creerebbe difficoltà enormi per il Mezzogiorno che ospita, infatti, una popolazione di oltre 20 milioni di persone ed il mercato del lavoro in cui esse agiscono presenta caratteri singolari rispetto alla media europea. Il suo tasso di attività – cioè la quota di occupati e disoccupati sul totale della popolazione tra 15 e 65 anni – è stato nel 2002 del 43,2 per cento. Nello stesso anno il tasso di attività del Centro-Nord è stato del 50,1 per cento, mentre quello medio europeo è stato del 56,9 per cento. Quello dei dieci nuovi paesi ammessi è stato pari al 57,9 per cento. Attenzione a questo dato: indica che il tasso di attività degli entranti è superiore a quello del Sud d’Italia ed a quello medio degli attuali quindici paesi membri. Ancora: il tasso di disoccupazione nell’Europa a 15 è pari al 7,6 per cento, in quella a 25 arriva all’8,7; nei dieci nuovi paesi entranti è pari all’11,5 ma nel nostro Mezzogiorno è attestata al 18,1. Nella Germania Est la disoccupazione è al 15 per cento.

Dunque il Sud d’Italia è una sacca di disoccupazione unica in Europa ed è caratterizzata da una scarsissima partecipazione della popolazione al mercato del lavoro ufficiale. Nonostante ciò, da italiani e da meridionali non dobbiamo comunque iscriverci al partito degli euroscettici. Occorre fuoriuscire dai luoghi comuni e porre sul tappeto i problemi nella loro reale dimensione. Per ora ne parlano solo gli addetti ai lavori, ma occorre sottolineare il fatto che il Mezzogiorno, essendo parte dello Stato italiano, deve rispettare il regime della moneta unica e l’apprezzamento del cambio che ne deriva in questa congiuntura di debolezza del dollaro. I dieci paesi entranti invece usufruiranno di una banda di oscillazione che permetterà di ammortizzare le variazioni del dollaro ed attenuare l’effetto di quelle variazioni sulla loro competitività economica. Analizzando tutti questi dati è evidente che ci sono tre motivi per ritenere il Mezzogiorno una grande area economica a rischio nel contesto europeo: il basso livello del reddito pro capite, l’elevato livello della disoccupazione, la contemporanea presenza di una stabilità imposta dal cambio e di una posizione geo-politica che genera rischi aggiuntivi rispetto ai normali rischi economici. Da questa premessa occorre partire per costruire una politica di sviluppo, che richiede interventi particolarmente efficaci perché dovrà realizzarsi in presenza delle difficilissime condizioni macroeconomiche sopra descritte.

All’interno di questo quadro generale, la Fondazione Ideazione ha organizzato lo scorso anno, ad ottobre, a Bari un convegno che s’intitolò “Un’altra idea del Mezzogiorno”. L’iniziativa fu molto seguita e suscitò attenzione fra politici ed esperti, anche nel mondo accademico. “L’altra idea” avanzata riguardava il fatto che non è possibile ipotizzare lo sviluppo se sul territorio mancano gli intermediari finanziari, e fu avviata una campagna per la costituzione di una nuova grande banca del Sud. L’idea ha fatto strada, nel senso che fonti autorevoli sostengono che lo stesso ministero dell’Economia sta valutando questa ipotesi. Ma ormai dobbiamo andare oltre, molto oltre. Dobbiamo renderci conto che il Mezzogiorno deve diventare sistema economico e deve sviluppare le sue iniziative guardando all’area balcanica ed anche a quella danubiana, dove è in atto un processo accelerato di sviluppo. Anche il mondo dell’Est uscito dall’era della glaciazione comunista è complesso: si compone di una parte più avanzata (Polonia ed Ungheria ad esempio) e di un’altra in ritardo per via delle sanguinose guerre etniche. Quest’ultima è l’area con cui noi dobbiamo interloquire ed i rapporti perciò non saranno facili. Però gli osservatori sono unanimi nel prevedere una crescita veloce, alla quale noi possiamo partecipare, collaborare e trarre benefìci.

Una nuova politica economica per il Sud

Una politica economica per il Mezzogiorno richiede innanzitutto un grande sforzo in direzione dell’accumulazione industriale e nell’innalzamento della produttività media aziendale. Ma anche un grande sforzo in direzione dell’allargamento della domanda effettiva che può avvenire grazie ad una marcata internazionalizzazione dell’attività delle imprese. Internazionalizzazione significa che bisogna partire dall’incremento delle esportazioni per giungere progressivamente a forme di partnership con le imprese dell’Europa orientale. La ripresa di una crescita stabile implica anche il raggiungimento di tre traguardi intermedi: la crescita delle dimensioni unitarie di impresa insieme alla crescita del numero delle imprese operanti, la diminuzione del tasso di disoccupazione e l’aumento del tasso di attività. Capitali investiti e lavoratori occupati debbono espandersi per allargare le dimensioni ed intensificare il ritmo del processo di accumulazione. Normalmente sono le banche che offrono alle imprese i servizi ed i capitali per ottenere simili risultati.

Proprio per questo a ottobre prossimo ripeteremo l’appuntamento di Bari e puntiamo ad essere più incisivi. Una nuova politica economica per il Sud può essere individuata a partire da due condizioni: il riconoscimento della natura e della qualità macroeconomica dei problemi da affrontare e la chiara percezione della fragilità finanziaria della struttura industriale meridionale. Sotto il primo profilo occorre individuare la contropartita in tema di aiuti finanziari internazionali dello svantaggio competitivo imposto dalla partecipazione al regime della moneta unica. La necessità di guidare le imprese ad un salto tecnologico e dimensionale richiede, invece, di trovare una ragionevole supplenza all’assenza di un sistema bancario capace di supportare con crediti finanziari e capitali di rischio gli investimenti necessari. Entrambe le considerazioni impongono di arrivare alla creazione di una vera e propria banca di sviluppo per il Mezzogiorno che, sul modello del gruppo World Bank, possa agire per creare un sistema qualificato di relazioni finanziarie internazionali e possa spingere, anche solo con la sua presenza, all’introduzione progressiva di forme di innovazione e di diversificazione nel sistema bancario meridionale che, allo stato, appare esogeno nella proprietà rispetto agli interessi imprenditoriali locali e concentrato sul credito commerciale e sui servizi di pagamento e di gestione del risparmio. Cioè sui segmenti meno rischiosi del mercato, ma anche su quelli più marginali rispetto al traguardo atteso di un’intensa ripresa del processo di accumulazione industriale nelle nostre regioni.

Il primo passo per la creazione delle condizioni istituzionali necessarie all’elaborazione di una politica economica capace di sviluppare queste intuizioni è la creazione di un coordinamento permanente tra le regioni meridionali. Da regioni del Sud dell’Italia debbono trasformarsi in regioni d’Europa, diventare interlocutori privilegiati degli organi istituzionali dell’Unione, essere sostenitori di una politica di rivitalizzazione del Mediterraneo ora che, dopo cinquant’anni di Guerra Fredda, questo è finalmente diventato un “mare aperto”. Aperto ai traffici, ai commerci, alla collaborazione fra imprese. Dopo aver esportato lavoratori e poi prodotti, ora possiamo esportare – in particolare sulla sponda adriatica dirimpettaia – imprese, in particolare il modello di piccola e media impresa che è necessario allo sviluppo di quei popoli. Il coordinamento fra le regioni meridionali serve a proporre un quadro di politiche e di istituzioni che, affrontando unitariamente la questione della crescita economica del Mezzogiorno, ponga questo obiettivo allo stesso governo italiano come un comune impegno europeo.

5 novembre 2003

(da Ideazione 5-2003, settembre-ottobre)

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