I punti cardine del progetto italiano
di Cristiana Vivenzio

Il disegno di legge di riforma pensionistica collegato alla Finanziaria, presentato ed approvato in consiglio dei ministri, potrebbe giungere in discussione alla Commissione Lavoro del Senato già la prossima settimana. E la delega per decidere in via definitiva della riforma previdenziale potrebbe essere affidata al Governo entro Natale. L’unico ostacolo: gli umori della piazza e una mobilitazione sindacale che, nonostante le dichiarazioni del leader Cisl Pezzotta, ha molto di politico. I punti chiave della riforma italiana vertono principalmente su un elemento: il sistema non può reggere a lungo, è necessario quantomeno ritardare l’età pensionabile attraverso una serie di incentivi e disincentivi ai lavoratori. Ecco, allora, nel dettaglio i principali capitoli del decreto del Governo. 

CONTRIBUZIONE O VECCHIAIA - Dal 2008 potranno andare in pensione gli uomini che hanno compiuto 65 anni (60 per le donne) o tutti coloro che abbiano versato almeno 40 anni di contributi previdenziali, ad eccezione delle lavoratrici madri, di coloro che svolgono un lavoro ritenuto usurante e di coloro che assistono i disabili in famiglia. A questi ultimi la normativa riconosce il diritto ai contributi figurativi nel caso in cui decidano di passare da un lavoro a tempo pieno ad uno part-time, con una integrazione a carico dello Stato dei contributi mancanti per ottenere una pensione piena. 
Il decreto legge lascia uno spiraglio aperto a quanti, alla data fissata del 2008 e fino al 2015, decidano di andare in pensione con le vecchie regole: in quel caso la pensione sarà calcolata, però, secondo un metodo a contribuzione e non a retribuzione, come avviene oggi.

INCENTIVI - Dal 1 gennaio 2004 e per tre anni, chi decide di non andare in pensione nonostante il raggiungimento dei requisiti minimi si vedrà aggiunta in busta paga la somma corrispondente ai contributi che normalmente vengono erogati alle casse previdenziali, vale a dire il 32,7% della retribuzione. In questo caso, la pensione verrà calcolata tenendo conto dell’ultima contribuzione versata. Il decreto legge contempla il caso in cui il lavoratore decidesse di continuare a versare i contributi, senza percepire l’eccedenza in busta paga, per aumentare il valore della sua pensione futura. Tali incentivi sono estendibili anche ai dipendenti pubblici, previo confronto tra il governo, gli enti locali e le parti sociali. 

Mancano ancora tre tasselli per completare il mosaico della riforma: come sciogliere il nodo del Trattamento di fine rapporto, con l’avallo delle parti sociali; in che modo affrontare il problema della decontribuzione sulle nuove assunzioni e che tipo di gradualità affidare all’applicazione della legge. In merito al primo punto, una delle proposte in esame, che almeno apparentemente non s’imbatte nel fermo no dei sindacati, sarebbe quella di trasferire il Tfr ai fondi pensione integrativi, il cosiddetto secondo pilastro. Resta da decidere in che misura percentuale: se l’intero ammontare o solamente un 75%; e con quali modalità: se attraverso una forma di silenzio-assenso del lavoratore o con un uso obbligatorio. Le difficoltà maggiori il governo le incontrerà per l’ipotesi di decontribuzione, su cui il sindacato non sembra in alcun modo disposto a mediare. Quanto alla gradualità, al momento la possibilità più concreta si rivolge alla cosiddetta quota 40 (i quarant’anni di contributi richiesti per andare in pensione). Si potrebbe decidere di scendere a 38 anni per il 2008 per poi salire gradualmente fino a 42 negli anni successivi. Ma la strada da percorrere è ancora lunga.

10 ottobre 2003

vivenzio@ideazione.com

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