L’onere della spesa pensionistica

Al 14 per cento del Pil la spesa pubblica italiana per pensioni e rendite previdenziali si colloca al limite superiore dello spettro dei valori registrati nell’ambito dei paesi dell’Ue. Aggiungendo i versamenti per i trattamenti pensionistici a carattere assistenziale e pur escludendo il “trattamento di fine rapporto” (Tfr), che invece l’Eurostat comprende nei suoi raffronti internazionali, la posizione dell’Italia appare ancora più estrema rispetto al resto dell’Unione (oltre il 15 per cento). L’anomalia non tocca soltanto l’incidenza della spesa sul reddito nazionale; essa riguarda anche il rapporto con le altre componenti della spesa destinata alla protezione sociale. Nel corso degli anni Novanta la componente pensionistica (incluso il Tfr) ha acquisito sempre più spazio e ha assorbito lo scorso anno circa il 70 per cento della spesa sociale. Nel 1997, ultimo anno per cui è possibile un confronto su basi sufficientemente omogenee, l’incidenza era ancor più distante dalla media dell’Ue (71,4 contro 53,5 per cento). Valori, così, elevati non si prestano di per sé a una valutazione negativa, in quanto ogni società democratica stabilisce liberamente a quali usi destinare le risorse che preleva dal cittadino. In realtà le prestazioni pensionistiche in Italia svolgono una funzione più ampia del semplice assicurare un reddito agli anziani (o invalidi). Per effetto di ben radicati meccanismi di solidarietà all’interno del nucleo familiare allargato, queste erogazioni previdenziali servono anche a sostenere il reddito dei componenti della famiglia a fronte di numerosi rischi, incluso quello di disoccupazione. Da un’indagine della Commissione Europea risulta che in Italia, a differenza del resto dell’Ue, le famiglie comprendenti almeno un pensionato godono di un reddito medio per componente al di sopra del livello medio della totalità delle famiglie.

Per quanto discutibile possa essere una spesa sociale incentrata sulle prestazioni previdenziali e fiduciosa nei meccanismi di solidarietà intrafamiliare, non si può trascurare l’elevato rapporto di sostituzione esistente tra questa forma di prestazione e le altre a finalità sociale (ad esempio, per malattia, maternità, disoccupazione, alloggio e povertà). In Italia, queste appaiono sottodimensionate nel raffronto con gli altri paesi avanzati. Pertanto, ogni intervento diretto a correggere un eccesso di spesa previdenziale avrebbe probabilmente come conseguenza un aumento della domanda di altre prestazioni sociali, a cui il settore pubblico dovrebbe fare fronte.

A parte queste considerazioni sul riequilibrio della composizione della spesa sociale, sia l’incidenza che la dinamica attesa della spesa pensionistica sono viste con preoccupazione dai governi, e non solo quello italiano, per via dell’impatto che esse hanno sulla finanza pubblica e sullo sviluppo dell’economia. Negli ultimi anni organismi internazionali, quali il Fmi e l’Ocse, hanno insistito, nei loro rapporti sull’economia italiana, sulla necessità di portare avanti le misure di correzione della spesa previdenziale, nonostante i progressi realizzati con le riforme del 1992 e del 1995 e gli aggiustamenti del 1997. Un monito in tal senso viene anche dal rapporto sulle finanze pubbliche che la Commissione e il Consiglio Ecofin hanno presentato al Consiglio Straordinario dei Capi di Stato e di Governo dell’Ue tenuto a Stoccolma nel marzo 2001. In esso si afferma chiaramente che “riforme ambiziose della previdenza sono richieste d’urgenza in numerosi paesi membri”, in particolare se si intende raggiungere l’obiettivo stabilito al Consiglio Europeo di Lisbona del marzo 2000 di un tasso di occupazione il più prossimo possibile al 70 per cento entro il 2010.

Per quali ragioni in Italia il sistema alla base della spesa pensionistica necessita ancora di importanti correzioni, pur dopo le riforme degli anni Novanta? Questo saggio mira a rispondere a questo interrogativo attraverso l’ottica delle implicazioni che derivano dall’attuale regime pensionistico sia per l’equilibrio del bilancio pubblico, sia per la crescita dell’economia. Sotto entrambi i profili sarà cura di mettere in evidenza i problemi che restano aperti sulla base anche delle analisi già disponibili. Queste insistono nell’esaminare gli aspetti di sostenibilità finanziaria e di equità delle prestazioni, mentre resta largamente inesplorata la relazione tra il sistema pensionistico e la crescita economica, nonostante che diversi elementi del sistema influiscano sulla propensione al risparmio, sul tasso di accumulazione di capitale fisso, sulle componenti della domanda e dell’offerta nel mercato del lavoro, sul costo del lavoro e sulla competitività internazionale, tutti fattori determinanti per lo sviluppo economico del Paese.

Il disavanzo pensionistico

Obiettivo principale delle riforme pensionistiche degli anni Novanta era contenere la spesa e il suo contributo al disavanzo pubblico. Malgrado i diversi interventi tendenti a riequilibrare il rapporto tra erogazioni e prelievi, i conti pensionistici hanno continuato annualmente a registrare disavanzi consistenti, che in termini di Pil sono ammontati tra il 2,6 per cento del 1995 e l’1,4 per cento del 1996. Mentre il disavanzo di bilancio veniva riportato al di sotto del limite del 3 per cento fissato dal Trattato di Maastricht e dal patto di stabilità e crescita tra i paesi dell’Ume, il deficit della gestione previdenziale ha mostrato una relativa rigidità, arrivando di conseguenza a superare quello complessivo; nel 2000, il disavanzo previdenziale era pari all’1,7 per cento del Pil circa mentre l’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni si attestava all’1,5 per cento del prodotto nazionale. Le stime più recenti del Nucleo di valutazione della spesa previdenziale (Nvsp) del ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale indicano che il rapporto tra l’incidenza della spesa per la previdenza sul Pil si stabilizzerà ai livelli degli ultimi anni solo se nei prossimi dieci anni l’economia italiana crescerà ad un tasso medio del 2,5 per cento l’anno. 

Dato l’attuale assetto del sistema, tale rigidità si presenta come una costante che permane nei prossimi tre decenni. Ne risulta che per rispettare l’impegno preso nel contesto dell’Ume di azzerare il deficit strutturale di bilancio, il paese è costretto a generare considerevoli avanzi nelle parti del bilancio corrente diverse da quelle relative alla previdenza. In altri termini, il paese deve continuare a comprimere oltre il dovuto le altre spese correnti sotto il suo controllo (il che esclude la spesa per interessi, che è prevalentemente funzione delle condizioni dei mercati), oppure insistere sulla leva del prelievo tributario. Per i prossimi anni non si intravedono tendenze che conducono allo sgonfiamento del disavanzo pensionistico. Il numero delle prestazioni pensionistiche è destinato ad aumentare, mentre la platea dei contribuenti, costituita dagli occupati, tende a diminuire per effetto degli andamenti demografici, anche nel caso in cui si riuscisse ad abbassare sensibilmente il tasso di disoccupazione, che quest’anno si prevede attorno al 10 per cento. In una proiezione, l’Ocse6 stima che, stanti le attuali tendenze della spesa pubblica, il deficit dei conti previdenziali è destinato a dilatarsi fino al 7,75 per cento del Pil nel 2035. Nemmeno una crescita più rapida muterebbe radicalmente questo scenario: si otterrebbe soltanto una minore crescita del disavanzo. La sua ascesa si fermerebbe al valore di punta del 5 per cento del Pil nel 2035.

L’urgenza d’intervenire sul sistema

Complessivamente, dagli elementi analitici e dalle considerazioni messi in luce si ricava il quadro di un sistema pensionistico obbligatorio che, pur dopo le riforme degli anni Novanta, non riesce a dare un contributo al futuro sviluppo dell’economia e della società, ma tende piuttosto a porsi come freno per entrambi. Le riforme dal 1992 in poi hanno lasciato aperti non pochi problemi di ampia portata, i quali non riguardano soltanto la sostenibilità finanziaria della crescente spesa previdenziale. Il sistema interferisce negativamente con determinanti importanti per la crescita economica e sociale, quali la dinamica delle forze di lavoro, gli incentivi al lavoro, l’occupazione, la propensione al risparmio, l’accumulazione di capitale produttivo, l’adeguatezza delle politiche di protezione sociale. Non intervenire e mantenere il sistema nelle condizioni attuali non rappresenta un’alternativa socialmente valida, perché non garantisce ai futuri pensionati una protezione dei loro standard di vita, né rende le correzioni del sistema più agevoli in futuro. Al contrario, con il prossimo ingresso nelle file dei pensionati di più folte schiere di lavoratori, gli aggiustamenti saranno socialmente più dolorosi in quanto dovranno toccare anche gli stessi pensionati. Né il problema si dissolve semplicemente puntando sull’innalzamento dell’occupazione, dato che misure di questo tipo non sono sufficienti. La direzione appropriata sembra quella che contempla un ventaglio di interventi, che tocchino il sistema pensionistico, ma che stimolino anche la dinamica della produttività del lavoro, quale passaggio obbligato verso una crescita economica più intensa.

Le sfide maggiori stanno nel riuscire a coniugare esigenze ed obiettivi apparentemente in contraddizione, se non in conflitto, avendo per sfondo un’evoluzione demografica sfavorevole e un patto di solidarietà intergenerazionale che è divenuto iniquo per le future generazioni. Il rischio peggiore è di non riuscire a soddisfare le esigenze di vasti segmenti della popolazione, ma di perpetuare squilibri, distorsioni e iniquità.

10 ottobre 2003

(tratto da AA.VV., "Pensioni: guida a una riforma", Ricerche della Fondazione Ideazione, Roma, 2001)

stampa l'articolo