La coperta corta dei fondi strutturali
di Angela Regina Punzi

Stabile, stranamente condivisa, al tempo stesso provocatoria. La proposta dell’Italia in merito alla politica regionale europea 2007-2013 mette insieme il “sì” di tutte le forze sociali e politiche sul “no” perentorio da far valere a Bruxelles:i criteri di ammissibilità alla zona Obiettivo 1 devono rimanere inalterati anche dopo il 2006. Il Memorandum, elaborato ed inviato all’Unione Europea e a tutti gli Stati membri, mira ad assicurare al Mezzogiorno ed alle aree sottoutilizzate del Centro-Nord il massimo delle risorse comunitarie anche dopo quella data. Si chiede, inoltre, di semplificare le regole di spesa e di attuare effettivamente il principio di sussidarietà. No, ancora, ad un oppressivo livello di controllo da parte dell’Europa, ma sì ad una maggiore responsabilizzazione delle amministrazioni nazionali.

Nell’Unione Europea allargata, 10 cittadini vivranno in regioni con Pil pro-capite inferiore al 75% della attuale media comunitaria, di questi, quattro saranno cittadini degli attuali Stati membri mentre gli altri sei dei paesi candidati. Vi è ampio consenso, quindi, sulla necessità di trovare eque soluzioni per le regioni degli attuali Stati membri, ora ammissibili all’Obiettivo 1 e che, non avendo portato a termine il processo di convergenza economica, potrebbero perdere il diritto di ammissibilità a motivo della diminuzione della media del Pil pro-capite nell’Unione allargata. In base ai dati relativi al 2000, 18 regioni con una popolazione di 21 milioni di abitanti potrebbero trovarsi in tale situazione. Da qui la risolutezza italiana a non modificare le regole. Le politiche regionali devono continuare a rientrare nel bilancio delle singole nazioni e non nel bilancio comune dei 25 Stati. Perché in Italia, rebus sic stantibus, il 90% della popolazione che ora è in Obiettivo 1 rimarrebbe in Obiettivo 1: post-allargamento perderebbero i “privilegi” di zona sottosviluppata, solamente Basilicata e Sardegna che sono anche le due regioni col minor numero di abitanti. 

Ma il no dell’Italia s’accompagna, e si oppone, al sì dell’Inghilterra, che chiede che le regole di ammissione alla zona Obiettivo 1 vadano modificate. Si tratta, secondo la proposta inglese, di definire il criterio di ammissibilità a livello nazionale: in tal modo sarebbero i paesi più ricchi a farsi carico dello sviluppo delle loro regioni in ritardo, senza alcun contributo comunitario. Così, l’Unione Europea, invece che rivolgersi alle regioni, parlerebbe direttamente ai governi. Escono dalla lista di coloro che devono essere aiutati quei governi il cui reddito raggiunge lo 0,90% rispetto alla media europea. Non si parte più dal reddito delle regioni povere per capire chi sono i destinatari delle politiche regionali, quindi, ma dal reddito medio delle nazioni. Il governo di Sua Maestà ammette che, seguendo tale impostazione, il Galles e la Scozia perderebbero gli aiuti comunitari, ma ritiene comunque che si tratti di un problema di competenza del governo nazionale. Per analogia, si deduce che anche il problema del rapporto tra il governo italiano e la Basilicata o la Campania sia un problema interno allo Stato italiano. Non sarebbe più la singola regione a perdere i contributi comunitari, perché sarebbe l’Italia come Stato a dovervi rinunciare a favore dei paesi dell’allargamento. 

Meglio, allora, spese per regioni povere o per nazioni povere? In realtà, le politiche regionali non dovrebbero essere per i poveri, perché esse sono il modo per organizzare la crescita efficiente dell’Unione nel sul complesso. Non si può immaginare che le politiche regionali si dedichino esclusivamente alle regioni arretrate, perché esse sono utili per riprogettare la relazione tra tutti gli attori, le istituzioni e le organizzazioni che compongono il grande mercato europeo. Queste politiche dovrebbero aumentare la capacità di crescita dell’Europa, e non aumentare la capacità di crescita delle sole regioni povere. Un “referendum” sulle politiche regionali rischia di essere inutile. Nei prossimi anni si dovrà evitare piuttosto un trade off tra supporto delle regioni in ritardo di sviluppo nelle aree forti ed aiuti alle economie degli Stati che aspirano alla nuova membership europea. Un sì, condivisibile e difficilmente discutibile, va piuttosto a regole della crescita che non rappresentino necessariamente un gioco a somma zero.

20 giugno 2003

a.punzi@libero.it
 

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