Oltre il vecchio welfare
di Massimo Lo Cicero

Monopolio statale nella produzione dei beni pubblici, inefficienza ed inefficacia della macchina amministrativa, debito crescente, perdita di controllo finanziario e perdita di sovranità politica: questi sono gli ingredienti della spirale che ha travolto l’Italia negli anni Ottanta. Negli anni Novanta un robusto ancoraggio alle regole fiscali europee ed al traguardo della moneta unica hanno garantito al Paese la stabilità dei prezzi e la riorganizzazione della struttura finanziaria. Questo assestamento macro-economico, certamente necessario, lascia in eredità al decennio contemporaneo tre problemi di carattere allocativo: la riforma del regime di welfare, un radicale ripensamento sui modi di produrre e distribuire servizi collettivi, il recupero del divario territoriale interno. L’Europa presenta certamente problemi simili – divari nel tenore di vita e nella produttività, eccessi di protezione sociale, dilatazione inefficiente della produzione statale di servizi collettivi – ma l’intensità delle patologie da correggere non raggiunge le punte italiane. Circostanza che spiega perché quelle patologie hanno frenato il tasso di crescita europeo rispetto a quello americano negli anni Novanta, e frenano anche oggi la crescita nell’intero continente, ma la frenano ancora di più nel nostro paese. 

Ne segue che occorre riscrivere l’agenda della politica economica italiana tenendo d’occhio gli effetti che si intende raggiungere in termini di allocazione delle risorse sotto il vincolo della stabilità macroeconomica. Esattamente il contrario di quanto si fece negli anni Novanta: quando l’urgenza della stabilizzazione del sistema – e la necessità di coagulare consenso sulle misure di austerità – produssero una miscela di concertazione tra le parti sociali, dilatazione della pressione fiscale ed invarianza della spesa pubblica che, tutte insieme, hanno oggettivamente deteriorato l’efficienza del sistema paese. D’altra parte il beneficio di ribaltare un trend negativo non poteva non avere un costo corrispettivo. Ora, però, dobbiamo trasformare quel costo in un investimento, utilizzando il tempo residuo per avviare il processo di messa in efficienza dell’economia e della struttura istituzionale del paese. La seconda metà degli anni Novanta – quando il ciclo espansivo mondiale era robusto e non era ancora intervenuto il trauma dell’attacco terroristico – rappresenta, sotto questo profilo, una tipica occasione mancata. Nonostante le condizioni di contorno non siano ora così favorevoli come allora, il paese deve agire per risanare il processo di formazione della ricchezza e della distribuzione del benessere che da essa può derivare. 

Siamo in presenza, insomma, di un dilemma classico: quello tra efficienza ed equità. Dove l’efficienza – cioè l’aumento della produttività del sistema – è la molla che sola può spingere l’accelerazione della crescita mentre l’equità, cioè una distribuzione ragionevole dei benefici derivanti dalla maggiore produttività, alimenta il consenso sociale necessario per poter rispettare il ritmo economico imposto dal metro dell’efficienza. La produttività, insomma, è l’anima di metallo che sorregge l’edificio dell’economia nazionale ma l’equità, cioè la condivisione della distribuzione dei benefici, è il cemento che mantiene compatta la struttura dell’edificio stesso. Ovvero, ed in altre parole, se la configurazione sociale dei modi in cui si manifesta il nuovo livello di benessere non appare condivisa dagli individui che, quotidianamente, si impegnano per aumentare la produzione di ricchezza, viene meno la stessa esistenza della torta del reddito nazionale e la domanda su come si debba affettarla tra le parti sociali diventa un vuoto esercizio retorico.

Questo dilemma non è certamente una novità nel dibattito sulla politica economica possibile. Esso, però, nel mondo contemporaneo deve essere affrontato alla luce di un ulteriore trilemma ben più insidioso. La globalizzazione dell’economia mondiale – che è un processo oggettivo e non il risultato di un’oscura congiura delle potenze finanziarie – genera un triangolo di obiettivi che, purtroppo, possono e devono essere perseguiti solo per coppie di due. La globalizzazione, infatti, ci impone di convivere con tre aspirazioni diffuse: un regime di piena democrazia politica; la presenza di Stati nazionali ed un marcato processo di integrazione economica. Economic integration and political disintegration, come aveva scritto Alberto Alesina, già nel 1997.

Dani Rodrik ritiene che questo trilemma rappresenti una sorta di evoluzione di quello che aveva dominato la prima stagione dell’integrazione economica mondiale – quella compresa tra la fine della seconda guerra mondiale e le crisi, monetarie ed energetiche, degli anni Settanta – quando mobilità dei capitali, autonomia monetaria nazionale ed un regime di cambi fissi erano tre aspirazioni che potevano essere conseguite solo a coppie di due. Il compromesso di Bretton Woods si fondava sulle ultime due: un regime di dollar standard e la responsabilità monetaria delle autorità nazionali. La crescente mobilità di capitali alla scala internazionale impose, infatti, di rinunciare al dollar standard in favore di tassi flessibili mentre, nel precedente regime di gold standard, la mobilità dei capitali ed un regime di cambi fissi riducevano drasticamente il grado di libertà per le politiche monetarie nazionali. Il nuovo trilemma ci pone di fronte al seguente interrogativo: se le decisione di rilevanza pubblica devono essere prese da coloro i cui interessi sono in gioco, e contemporaneamente proseguire il processo di integrazione economica internazionale, c’è ancora posto per gli Stati-nazione? Cioè per uno Stato che, in termini di politica economica, sia capace di farsi carico del regime di previdenza sociale e della stabilità macroeconomica di un mercato che ricada sostanzialmente nel perimetro amministrativo dei suoi confini. La convivenza di forme diffuse di controllo politico e di integrazione economica impongono un regime di federalismo globale. 

L’esperimento, in corso, dell’Unione Europea e del suo allargamento conferma questa percezione. Mentre, al contrario, la dilatazione del numero di economie che aderisce ad un regime monetario fondato sul dollaro, accompagnando questa dilatazione con la nascita di grandi aree integrate di libero scambio, ci insegna che esiste una soglia dimensionale, oltre la quale non ha senso porsi il problema dell’identità politica del regime istituzionale, riducendosi lo stesso ad un accordo di cooperazione monetaria, finanziaria e commerciale che non delega ma relega alle autorità locali il compito di produrre o disciplinare la produzione di beni collettivi. Quelle medesime autorità locali, in una logica di federalismo globale, conferiscono legittimità e consenso politico agli accordi internazionali che disciplinano l’integrazione commerciale e finanziaria. Non occorre aggiungere che, in un simile regime, la moneta da legale diventa fiduciaria mentre la valuta base rimane tendenzialmente confinata nel ruolo di numerario ed equivalente generale degli scambi. Non si sottovaluti la funzione del metro monetario nella creazione della fiducia necessaria per alimentare gli scambi, riducendo i costi di transazione collegati ad una permanente verifica dei valori in gioco. 

Ma proprio la competizione, e non la regolazione amministrativa, rappresenta la leva per assicurare la stabilità dei prezzi nel mondo dell’economia globale. Nelle produzioni di alto contenuto tecnologico e di larga diffusione, si pensi al mercato dei personal computer e dei telefoni cellulari, invece, il problema da risolvere è quello della strutturale caduta dei prezzi relativi e non certo quello dell’inflazione. Pensare di far convivere nelle sue forme tradizionali lo Stato-nazione con un regime di piena integrazione economica internazionale significa ridurre l’esercizio di quella libertà statale nelle maglie di una vera e propria camicia di forza che dovrebbe, a sua volta, limitare l’esercizio di una diffusa democrazia politica. Se per democrazia politica si intende, appunto, un marcato spostamento della capacità di decidere verso gli interessi locali coinvolti dagli effetti di quella decisione. La soluzione di questa contrapposizione oggettiva tra diffusione della democrazia ed integrazione economica internazionale viene individuata da Rodrik proprio nel compromesso di Bretton Woods. Quando, al regime di dollar standard, si affiancavano le due colonne istituzionali del sistema: il Fondo monetario e la Banca mondiale. Ma quella architettura funzionava in un regime sostanzialmente regolamentato dei movimenti internazionali di capitale e con una regia degli aiuti alla crescita che veniva affidata all’intervento concertato dei grandi Stati-nazione. La ricetta che quegli Stati utilizzarono per trovare un ragionevole compromesso democratico interno non era sempre la medesima. 

Il governo degli Stati Uniti si è ritagliato sempre un ruolo prevalentemente macro-economico della propria politica economica: mantenendo la pressione fiscale, e di converso i compiti direttamente affidati alla pubblica amministrazione, al di sotto della soglia del 33 per cento rispetto al Pil. I governi europei hanno ampiamente superato il 45 per cento del Pil in termini di pressione fiscale ed hanno dilatato la funzione previdenziale dello Stato, ereditata dalla tradizione paternalistica delle monarchie costituzionali, in uno con la tendenziale formazione di veri e propri monopoli nella produzione di beni pubblici e nella gestione dei servizi di rete: telecomunicazioni, energia, approvvigionamento idrico e trasporti. In questo scenario – di allargamento progressivo della spesa pubblica, e del debito necessario per finanziarla, e di deterioramento nell’efficienza e nell’efficacia per la macchina amministrativa pubblica – l’estensione delle burocrazie pubbliche, e le collusioni delle stesse con gli interessi sociali organizzati, sono state la base del corporatismo europeo che differisce non poco dalle forme di lobbying diffuse anche negli Stati Uniti, evidentemente.

Il governo americano, insomma, quale che sia stata la composizione della maggioranza parlamentare di cui era espressione, si è sostanzialmente fidato del mercato ed è intervenuto per creare le condizioni che lo mettessero in grado di funzionare, riducendone i casi di fallimento sistemico. Ne è prova evidente la creazione di politiche ed autorità indipendenti per la difesa della concorrenza e la tutela dei consumatori finali. La cultura americana ritiene che produrre la torta della ricchezza sia la necessaria condizione preliminare per discutere sulla dimensione relativa delle fette in cui bisogna attribuirla alle parti sociali. E che un mercato competitivo e trasparente sia la migliore garanzia per ottenere un simile risultato. La cultura economica dei democratici americani, diversamente dalle forzate interpretazioni che ci vengono somministrate dalla sinistra europea, non ritiene che la soluzione dei fallimenti del mercato sia un regime di economia socialista, ma la creazione di condizioni in cui l’accesso alle informazioni e la libertà di ingresso rappresentino le basi di una competizione che genera soluzioni allocative efficienti.

Dopo il neo-liberismo, ed i suoi evidenti limiti emersi negli anni Novanta, non ci sarà assolutamente un neo-socialismo mentre la versione parodistica del mercato che aveva alimentato la mitologia neo-liberista “sta all’economia politica come l’astrologia sta all’astronomia”. Nel paese di Croce, che difese, contro lo stesso Einaudi, la distinzione logica tra liberismo e liberalismo, questa percezione dovrebbe essere radicata ma, purtroppo, questo non è assolutamente vero. Lo Stato sovietico, d’altra parte, identificava se stesso come il supplente del mercato e, dunque, risolveva in sé, ed ex ante, il dilemma della possibile contrapposizione tra efficienza ed equità, tra produzione della ricchezza e distribuzione del benessere. L’implosione del sistema che ne è derivata si commenta da sola. La cultura contemporanea, insomma, si mostra convinta e coesa almeno su un punto di metodo. Non esistono alternative possibili fuori dal trilemma di cui stiamo discutendo e fuori di una prospettiva che assuma il mercato come bussola dei comportamenti individuali. Si può e si deve discutere sulla natura del mercato, che rappresenta solo il risultato dell’interazione tra una miriade di volontà. Il problema è di quali strumenti dispongano quelle volontà e quali procedure possano e debbano adottare per interagire tra loro e determinare i termini dello scambio, cioè il valore delle cose di cui dispongono gli individui. Le istituzioni sono solo lo strumento e le procedure che permettono ai mercati di esistere e di agire nell’interesse degli individui. In altre parole, in Europa ed, a maggior ragione, in Italia, se davvero si vuole ridisegnare l’architettura del sistema nel suo complesso, non esiste una soluzione economica al di fuori o prima di una soluzione istituzionale, e chi lo chiede converge oggettivamente nella difesa della trappola corporatista. 

E' singolare, ma è anche profondamente vero, che questa convinzione della necessità di tenere insieme riforme economiche e riforme istituzionali sia piuttosto radicata nella sensibilità degli economisti che non in quella del ceto politico o della cultura giuridica europea. Questo modo di ragionare dell’economia politica è il naturale portato della consapevolezza dell’assenza di un’alternativa credibile al mercato come luogo deputato per la formazione delle decisioni che riguardano la sfida di ogni individuo “contro le forze oscure del tempo e dell’ignoranza”. Una consapevolezza che si affianca alla certezza che, in un mondo dominato da asimmetrie informative e forme di opportunismo individuale, non può esistere un mercato se non grazie ad un sistema di istituzioni.

Ma questo sistema deve necessariamente essere poliarchico e non strettamente gerarchico: ed è questa la ragione che giustifica la tutela della competizione, la regolamentazione della produzione di beni pubblici e la stessa nascita delle imprese che sono, in definitiva, vere e proprie istituzioni basilari per la diffusione di massa dello scambio ed il pieno funzionamento dei mercati. Affermazione che vale sia per il mercato delle merci e dei servizi che per il mercato dei capitali, evidentemente: senza l’esistenza delle imprese, come “contenitori intelligenti” del capitale investito, non ci sarebbe alcuna opportunità di destinare le risorse che eccedono il fabbisogno necessario al consumo individuale verso l’investimento. Le ragioni della logica, tuttavia, sono solo uno dei vincoli all’azione della politica: l’altro vincolo essendo la forza relativa degli interessi che si oppongono al ripristino di condizioni di maggiore equità quando questo traguardo comprometta rendite di posizione tutelate da ordinamenti obsoleti e, tuttavia, ancora efficaci. La riforma del welfare in Europa è difficile perché compromette la sopravvivenza di un regime corporatista che tutela interessi diffusi e ne rafforza il potere di negoziazione. Questi poteri, tuttavia, generano una profonda distorsione nel processo allocativo delle risorse: come del resto è normale che sia quando si tutela una rendita e non si perviene ad una redistribuzione del valore secondo una scala di equità capace a tutti gli effetti di premiare il contributo alla produzione ed incentivare la partecipazione al processo lavorativo in uno con il rafforzamento della coesione sociale.

Esperienza europea ed esigenze italiane 

E’ assolutamente evidente che il monopolio pubblico del regime di welfare e della produzione di beni collettivi generi inefficienza e sia ormai insostenibile, in termini di solidità delle finanze pubbliche, nel regime fiscale e monetario che l’Unione europea ha scelto di darsi. Si può migliorare, certamente, anche l’architettura di quel regime, ma non si può sfuggire al trilemma che contrappone il federalismo globale alla rigida sopravvivenza dell’ipertrofia amministrativa dello Stato-nazione. Le strade da percorrere sono ormai esplorate anche nell’esperienza europea ed italiana. L’assegnazione di risorse alle famiglie perché provvedano ad erogare esse stesse servizi agli anziani ed alle persone più deboli, la distribuzione di coupon da utilizzare per finanziare gli investimenti nell’istruzione dei figli ed ogni altra forma di cartolarizzazione dei diritti di accesso ai beni pubblici, che possa far nascere un mercato in cui competono produttori non statali di quei beni, è un timido ma utile passo avanti nella direzione giusta. 

Una considerazione unitaria dei problemi relativi all’equilibrio tra risparmio ed investimento, rischio ed incertezza sarebbe assai utile per dare una base più concreta alla soluzione dei difficili equilibri in campo previdenziale e pensionistico. E' evidente che non si può affrontare la riforma della previdenza sociale se non si trova una soluzione anche al problema di riconvertire il trattamento di fine rapporto in un impiego razionale e di mercato del risparmio dei lavoratori che deve finanziare il loro futuro non lavorativo. Ma trasformare il trattamento di fine rapporto significa anche trasformare il rapporto tra le imprese e le banche ed aprire le imprese familiari al mercato dei capitali. Senza questa riconversione del sistema, che coinvolge ovviamente anche le compagnie assicurative, non esiste soluzione al problema di un nuovo equilibrio inter-temporale ed inter-generazionale tra risparmio ed investimento.

La stagione delle privatizzazioni ha ridimensionato lo Stato banchiere e lo Stato imprenditore ma non ha ancora garantito maggiore competizione sul mercato del credito e su quello dei beni e dei servizi. E’ necessario che, lungo la strada di una progressiva scomparsa dello Stato-nazione, esso cessi anche di essere la grande cupola che pretende di garantire ogni individuo dall’incertezza del futuro. Anche questa residua funzione di intermediazione tra il presente ed il futuro dovrebbe essere restituita progressivamente ai mercati finanziari, opportunamente regolamentati e monitorati dalle autorità di vigilanza. 

23 maggio 2003

(da Ideazione 2-2003, marzo-aprile)

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