Perché serve un new deal della ricerca
di Andrea Gumina

E' cronaca di questi ultimi giorni il carteggio tra alcuni nostri ministri – segnatamente Moratti e Buttiglione – e la Commissione Europea, in merito ad ulteriori revisioni del Patto di Stabilità. In particolare, si invocava da parte dei nostri leader la piena applicazione di una golden rule per alcuni investimenti pubblici, tra i quali soprattutto quelli in ricerca. La risposta della Commissione, ancora una volta, è stata piuttosto secca e rigida, tesa a sottolineare l’importanza di difendere ad oltranza soprattutto i vincoli di bilancio che il Patto impone. 

Quanto accaduto merita una serie di riflessioni. Anzitutto, è un dato di fatto che l’Europa, ancor prima dell’Italia, non si avvia assolutamente a divenire la prima economia della conoscenza al mondo: la competitività è oggi frutto anzitutto dello sviluppo tecnologico, e lo sviluppo tecnologico richiede molta ricerca di base. In secondo luogo, le risorse destinate dai Governi nazionali e dall’Unione all’attività di ricerca sono pochi e dispersi in mille rivoli; cosa ancora peggiore, non esiste – se non nel Regno Unito – un framework legislativo e sociale che premi i privati che decidano di investire grosse somme in attività del genere. Infine, quelli che dovrebbero essere gli incubatori prìncipi del processo di ricerca e sviluppo non sono ancora oggi che minimamente sfiorati dall’idea di realizzare ricerca industriale e/o pre-competitiva: parlo ovviamente del sistema universitario. Dunque, ricapitolando: non direi si tratti solo di un problema di bilancio pubblico, quanto anche di quadro regolamentare adeguato a promuovere il funding dei processi innovativi. Tra i grandi assenti, difatti, troviamo anche il venture capital, che nell’Europa continentale – segnatamente in Italia – è penalizzato da un assetto fiscale particolarmente punitivo. 

Detto ciò, tuttavia, ci si dovrebbe interrogare su questa ritrosia europea nel finalizzare parti delle entrate degli Stati verso attività che possano fungere da volano per lo sviluppo globale: specie ora che, con l’allargamento a venticinque, un rapido innalzamento della produttività complessiva dell’area, insieme ad uno “shock” tecnologico, potrebbe produrre positivi effetti anche sul cammino di crescita degli entrant. In sostanza, si dovrebbe riflettere sul motivo che si cela dietro ad una difesa estenuante di un tasso d’inflazione “ufficiale” quasi azzerato (il 2%), mentre si continuano a procrastinare riforme indispensabili sul fronte del mercato del lavoro, delle pensioni, della stessa capacità dei policy maker a fare non tanto politica anti-ciclica, quanto politica strutturale.

Verebbe da dire, in molti casi, che è molto più facile controllare una variabile monetaria che numerose variabili reali (o i processi che vi si riflettono). Eppure, la strada dell’Europa non può essere questa, a scartamento ridotto, inchiodata a parametri che hanno un senso solo nella misura in cui possono indicare il corretto bilanciamento tra stabilità del sistema e crescita economica (ed infatti il Patto richiama ambedue i concetti): proprio la coesistenza di questi due concetti, anzi, non può prescindere dalla possibilità di attuare politiche economiche anche e soprattutto nel campo delle tecnologie e della ricerca. 

Abbiamo bisogno di un new deal della ricerca: ci vuole un Patto – questo sì – tra sistema produttivo privato, università e governi, che garantisca risorse adeguate alle sfide, un quadro regolamentare premiante e una forte cooperazione tra i vari Paesi membri – vecchi e nuovi. Ci vogliono politiche che mettano in grado i capitali privati di finanziare, con grandi risparmi fiscali, gli atenei e le imprese che si alleano per fare ricerca, sviluppare modelli precompetitivi e poi metterli sul mercato; allo stesso modo, gli Stati membri devono essere messi in grado di sostenere le minori entrate fiscali o la maggiore spesa pubblica (ricordiamoci che parte della ricerca è ancora un “bene pubblico”, e come tale esige forme di finanziamento esterno per sostentarsi), necessarie a rendere efficaci queste politiche. Solo così potrà accrescersi la nostra competitività, le nostre imprese potranno essere player a livello mondiale, il nostro mercato del lavoro aumentare i posti a disposizione. Non si tratta, quindi di rinnegare i principi del Patto di Stabilità, ma di adeguarlo alle esigenze che il momento impone, spostando le rigidità soprattutto sulla spesa improduttiva – quella sì, che va ridimensionata, ed al più presto. Solo così, la vecchia Europa potrà tornare a dire finalmente la sua nei processi di innovazione mondiale. 

9 maggio 2003

a.gumina@libero.it 

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