Calcio e mercato: nemici-amici
di Stefano Mensurati
da Ideazione, marzo-aprile 2003

“Sì, anch’io vorrei i nostri tifosi come azionisti, ma occorre offrire un prodotto migliore. L’Inter a Piazza Affari? Per il momento non credo che ne valga la pena. Direi che la cosa non è attuale”, aveva ammesso un anno fa il presidente Massimo Moratti. Sarà per colpa dell’andamento dei mercati, in calo ormai da quasi tre anni, sarà per il bilancio dell’esperienza di Lazio, Roma e Juventus, tutt’altro che entusiasmante a meno che non si voglia legare la quotazione in Borsa all’immediata conquista dello scudetto (“coincidenza” sulla quale torneremo più avanti), ma a entrare sul mercato azionario, qui in Italia, al momento non ci pensano più neanche le altre due papabili, Milan e Udinese. Anche il Bayern di Monaco, che sarebbe la seconda squadra tedesca a entrare in Borsa dopo il Borussia Dortmund, ha rinviato l’esordio di 3-4 anni, a dopo il completamento del nuovo stadio. Altre due grandi, il Liverpool e il Real Madrid – società, quest’ultima, che vanta utili record – parlano ormai da anni di un esordio imminente, ma finora si sono tenute alla larga dalla Borsa. 

Non solo, ma tutti i più autorevoli e recenti studi di settore sconsigliano la quotazione. Per gli analisti finanziari di Bourse Finance Sports non è né la soluzione miracolistica che i presidenti di club si attendono né la più gestibile. Infatti, nonostante l’afflusso di milioni di euro, i conti delle società quotate non sono stati per nulla risanati, anzi, in alcuni casi, qualche anno dopo il collocamento i bilanci hanno mostrato disavanzi mai visti prima. Il 30 novembre scorso, a fronte di un patrimonio di 30,7 milioni di euro, la Lazio aveva ben 137 milioni di euro di debiti, 265 miliardi delle vecchie lire. Non migliore la sorte toccata ai tifosi, ovvero ai poveri sottoscrittori di azioni: negli ultimi dieci anni i titoli del pallone hanno avuto un rendimento medio annuo negativo del 10,4 per cento, e questo nonostante prima dell’esplosione della bolla speculativa della primavera del 2000 le Borse mondiali venissero da 7-8 anni di rialzi, diffusi in tutti i comparti merceologici. Dello stesso avviso la Deloitte & Touche, che un anno fa, in occasione della presentazione di due nuovi indici di settore approntati dal Sole 24 Ore – il Premier Index, che riassume l’andamento delle 25 società quotate in Europa che giocano nei tornei di massima divisione, e il Goal Index, relativo alle 13 a maggiore capitalizzazione e liquidità – ha tracciato un quadro impietoso del settore. 

Nel 2001 il fatturato del calcio italiano era stato di 1,15 miliardi di euro, con un incremento del 9 per cento rispetto al 2000, e questo mentre nei quattro anni precedenti il tasso di crescita era stato del 77 per cento. In compenso il costo del lavoro è lievitato del 32 per cento nel 2001 e del 108 per cento nei quattro anni precedenti. E, sempre nel quadriennio 1998-2001, la passività del circolante netto è salita del 296 per cento, gli ammortamenti del 134 per cento e le passività a lungo termine del 224 per cento. Insomma, un vero disastro. La preoccupazione è ovviamente diffusa e non riguarda le sole squadre quotate, anche se poi le analisi non sempre brillano per lucidità. C’è, infatti, chi manifesta visioni antiquate, del tipo “il mercato Moloch che divora i suoi figli”, come se i crolli azionari dipendessero da un’entità astratta. Uno di questi teorici è il presidente della Fifa Joseph Blatter, che alla vigilia dei mondiali dello scorso anno se ne uscì così: “La quotazione in Borsa offre la possibilità, o meglio costringe le società a dotarsi dei giocatori più costosi, al fine di ottenere buoni risultati. E allora cosa succede se poi non arrivano? La pressione è molto forte, c’è anche il pericolo che si utilizzino metodi illegali, al di fuori delle regole, per ottenerli. Non mi piace l’idea che società di calcio si quotino in Borsa”. Un’opinione che lascia il tempo che trova, sia perché – come dimostra il caso della Corea del Sud – non c’è bisogno di essere quotati in Borsa per condizionare i risultati in campo (fra l’altro sotto lo sguardo indifferente se non, addirittura, complice della stessa Federazione internazionale), sia perché, almeno al momento, le società quotate non sono ancora mai state scoperte a truccare partite o bilanci. Semmai sono le regole a dover essere riviste. Per il fiscalista Victor Uckmar, già presidente della Covisoc, l’organismo che vigila sui bilanci societari dei club, c’è qualcosa che non funziona. Da un lato manca l’obbligo di certificazione dei bilanci – e così in molti rinunciano a questa “seccatura” supplementare – dall’altro si ricorre ad artifici contabili puerili, che però nessuno contesta. 

Se, per esempio, una squadra vende un giocatore per 10 milioni di euro, ovviamente iscrive questa somma all’attivo. Ma chi compra, spalmando l’investimento su quattro anni potrà impunemente segnare tra le passività solo 2,5 milioni di euro a stagione, che diventano, però, un attivo di 1,5 milioni se nel frattempo vende all’altra squadra un giocatore a 4 milioni. A conti fatti: per la prima squadra, la campagna acquisti si è risolta con una Dailyvalenza di 6 milioni (10 - 4); per la seconda, con un + 1,5 (4 - 2,5) anziché con un - 6 (4 - 10). Insomma, tutti più ricchi, grazie alla possibilità di fatturare oggi i ricavi del momento e magari anche quelli di ieri, e invece di contabilizzare domani i costi di oggi. Salvo poi ritrovarsi con casi come quello della Fiorentina, che ha chiuso i battenti, o della Lazio, che per sei mesi non ha pagato gli stipendi ai suoi calciatori. O del Nottingham Forrest, le cui azioni nel ’98, a fine stagione, hanno perso oltre l’80 per cento in poche settimane per colpa della retrocessione. La verità è che le società di calcio, almeno in Italia, continuano a vivere in una sorta di limbo. Non a caso nello scorso mese di ottobre la Consob è intervenuta presso quelle quotate per sapere se pagano l’Irap, l’imposta regionale sulle attività produttive, che nel caso specifico non è altro che l’imposta sulle Dailyvalenze derivanti dalla compravendita dei calciatori. Fino a qualche tempo fa si riteneva infatti che i club sportivi fossero esentati da questo tipo di tassazione, poi nel 2001 l’Agenzia per le entrate aveva specificato che l’Irap riguardava tutti, senza eccezioni. A quel punto, su suggerimento della Lega Calcio, le società erano state invitate ad accantonare riserve per pagare eventuali sanzioni, ma non tutte si sarebbero adeguate. Molto più frequenti i richiami della Consob su un altro tema, quello delle voci del calcio-mercato. Nel luglio scorso il Manchester United ha acquistato dal Leeds, altra società quotata, il difensore Rio Ferdinand: prezzo concordato 47 milioni di euro, contratto di cinque anni. La notizia, tenuta segreta fino all’ultimo – anche se ovviamente erano trapelate indiscrezioni – è stata comunicata simultaneamente dai due club alla Borsa di Londra. 

Quotazioni in borsa: la soluzione italiana

Questa la prassi in Inghilterra. Cosa accade invece da noi? Che la telenovela del calcio-mercato si trascina per mesi e le voci su possibili clamorosi trasferimenti influenzano in maniera sensibile le quotazioni dei titoli. E se certe voci fossero diffuse ad arte, per speculare sulle oscillazioni di Borsa? Per sgomberare il campo da equivoci e soprattutto da casi di aggiotaggio, la Consob ha invitato ufficialmente le società quotate a precisare immediatamente lo stato della trattativa. Ed ha anche chiesto bilanci più trasparenti. Tra le indicazioni sollecitate: l’indebitamento finanziario netto, il rapporto tra indebitamento e patrimonio, la variazione della liquidità disponibile. Tra i commenti che si vorrebbero poter leggere: gli effetti economici legati a fenomeni stagionali, l’esito della campagna abbonamenti, i contratti di sponsorizzazione e quelli di cessione dei diritti radiotelevisivi, la campagna trasferimenti successiva all’ultima trimestrale presentata, le eventuali sanzioni tributarie e contributive. Senza voler discutere la buona fede, la resistenza ad adeguarsi deriva probabilmente da un certo ritardo di mentalità. Fino a qualche decennio fa in questo settore eravamo ancora alla preistoria normativa. Prima del ’66, infatti, i club di calcio italiani non avevano neanche personalità giuridica. Nello Statuto emanato quell’anno dalla Figc (Federazione Italiana Gioco Calcio), che rappresentò un importante passo avanti, c’era però pur sempre il comma 1 dell’art. 3 che imponeva “l’obbligatoria assenza di fini di lucro, sotto qualsiasi forma”. 

Ed è solo nel 1981 che il Parlamento interviene per abolire il “vincolo sportivo”, che consentiva a una società di disporre a suo piacimento del giocatore, anche impedendone il trasferimento ad altra squadra. Per capire meglio il ritardo dell’Italia, due anni dopo si quoterà in Borsa la prima squadra inglese ed europea, il Tottenham Hotspur, mentre da noi dovremo aspettare altri 15 anni per vederci chiaro, fino cioè al ’96, e ben 17 per brindare alla prima matricola del pallone. La spinta innovativa arrivò dalla rivoluzionaria sentenza Bosman del ’95, con la quale la Corte di Giustizia europea liberalizzava il trasferimento dei calciatori professionisti all’interno dell’Unione, aboliva le limitazioni numeriche imposte dalle federazioni nazionali e cancellava l’obbligo per l’acquirente di rifondere al venditore l’indennità di preparazione e di promozione del calciatore. Un decreto legge del giugno ’96 riordinò così la materia, consentendo alle società sportive di perseguire un reddito ed eventualmente di distribuirlo fra i soci, eliminando al contempo l’obbligo di reinvestire gli utili. A settembre, con un altro decreto, il via libera all’azionariato popolare, dunque il permesso di quotarsi in Borsa.

E’ proprio il ’96 l’anno di svolta per il nostro calcio: arrivano 46 stranieri in Serie A e ben 23 italiani vanno a giocare all’estero; le tv a pagamento offrono la visione di tutti gli incontri di A e B, facendo così crescere le entrate dei club; la Rai perde per la prima volta l’asta per i diritti sul campionato e Tmc riesce anche, per la prima volta nella storia della tv italiana, a trasmettere in diretta e in esclusiva un incontro della Nazionale; alcune partite vengono anticipate al sabato nella speranza di aumentare il pubblico e i guadagni sui diritti tv; le squadre si coalizzano per chiedere una diversa distribuzione dei proventi del Totocalcio e del Totogol; compaiono le prime magliette che non hanno nulla a che vedere coi colori societari, naturalmente per incrementare le vendite fra i tifosi. Questo mentre in Gran Bretagna il ’96 è l’anno dell’entrata in massa in Borsa. Un evento non casuale, secondo uno studio della Salomon Brothers, proprio per poter sommare ai ricavi del collocamento le maggiori entrate derivanti dalla cessione dei diritti alle pay-tv. In Italia, invece, manca ancora un dettaglio, senza il quale però oggi l’unica squadra quotata sarebbe la Juventus. Per entrare a Piazza Affari, servono infatti tre bilanci consecutivi in utile. Un requisito che la Consob ha generosamente risparmiato alle società di calcio, che quindi – a differenza di una qualunque altra azienda – hanno potuto e possono collocare sul mercato consistenti pacchetti azionari nonostante conti societari tutt’altro che tranquillizzanti. Una scappatoia che non ha certo aiutato a maturare, a considerare la società di calcio come una vera azienda, con la distribuzione delle mansioni secondo le competenze specifiche. 

Non a caso da noi il modello manageriale di riferimento è rimasto quello del presidente mecenate, che in quanto titolare unico delle chiavi della cassa, si è spesso assunto in prima persona le responsabilità amministrative, quelle del marketing o della ricerca delle sponsorizzazioni, quelle della scelta dell’allenatore, dell’acquisto o della vendita dei calciatori, fino a fornire indicazioni sulla formazione della squadra. Con un approccio dettato essenzialmente dalla passione e con l’unica prospettiva di un ritorno in termini di popolarità (sempre che la squadra vada bene), si è così assistito a fiaschi clamorosi, a società che si sono dissanguate in campagne acquisti folli senza vincere nulla, a imprenditori che a forza di trasferire risorse dalla loro attività originaria alla squadra del cuore sono finiti in bancarotta. Con una sola eccezione, quella di Silvio Berlusconi e del Milan, eccezione che ovviamente conferma la regola. Ecco che probabilmente le squadre italiane non erano pronte al salto nel mercato azionario. E ora si leccano le ferite. Tanto che le ragioni che suggeriscono ai presidenti di club di rinviare sine die il collocamento sono sicuramente più pressanti della tentazione di riequilibrare temporaneamente i conti, rastrellando soldi tra i piccoli azionisti. Tra i piccoli – e questo è un dato da tenere bene a mente – perché salvo partecipazioni pro forma gli investitori istituzionali, in Italia come nel resto d’Europa, si sono tenuti accuratamente alla larga dalle “azioni pallonare”.La ragione numero uno di tanta prudenza è semplice: se si esclude il caso del Manchester United, che vede tuttora quotare le sue azioni a un prezzo pari a circa 5 volte e mezza quello di collocamento; per il resto è stata quasi ovunque una catastrofe. Tanto da far dire lo scorso anno allo stesso presidente del Manchester, Peter Kenyon, che “la maggioranza degli analisti ritiene che i club di calcio non dovrebbero essere quotati, perché c’è troppa incertezza e questo non piace agli investitori”.

L’avventura in borsa: le ragioni di un flop

Ma come è arrivato il calcio in Borsa e perché, nel complesso, il bilancio di questa avventura è così negativo? Come già ricordato, la prima società a quotarsi è stata il Tottenham, nel lontano 1983. Dopo il boom del ’96, con le quotazioni delle new entries che raggiungevano prezzi insperati, già nel ’97 sono arrivate le prime avvisaglie della crisi. A fronte di una Borsa particolarmente tonica, infatti, con l’indice Footsie 100 (il Mib 30 della City) in rialzo del 32 per cento, le azioni del calcio quell’anno cedettero in media il 35 per cento. Nel 1998 si verifica una parziale inversione di tendenza, dettata dall’interessamento di Rupert Murdoch per il Manchester, inversione della quale beneficiò tutto il comparto. Ma a risvegliare tutti dalle illusioni ci fu il caso del Milwall, la cui retrocessione fece improvvisamente crollare il titolo, che ora vale il 98 per cento in meno rispetto ai massimi. Attualmente le squadre quotate sono circa una quarantina: 24 in Gran Bretagna, 6 in Danimarca, 3 in Italia, 2 in Portogallo e una ciascuna in Germania, Olanda, Austria, Svizzera. La molla, ovviamente, è sempre la stessa: in un meccanismo che divora soldi in maniera spaventosa, la fame di capitali è praticamente illimitata. Limitate, invece, sono le risorse: spesso si tratta di filoni in via di esaurimento o di drastico ridimensionamento, come i diritti televisivi; oppure di entrate difficili da espandere, come gli incassi ai botteghini; o ancora di miniere in gran parte inesplorate, come il merchandising; o infine di possibili nuovi introiti, che devono però essere preceduti da forti investimenti iniziali, come la costruzione di nuovi stadi o di luoghi di accoglienza e di ritrovo per la tifoseria. 

Niente di meglio, quindi, che rastrellare enormi capitali freschi, con una spesa minima (il collocamento ha ovviamente costi incomprimibili) e soprattutto una tantum. Con il doppio vantaggio che questi soldi, non essendo stati presi in prestito, non dovranno mai essere restituiti e che l’azionariato popolare che si viene a formare non modifica in alcun modo l’assetto societario: a comandare, in sostanza, restano sempre gli stessi. La Juventus, ad esempio, ha collocato ben il 35 per cento del suo pacchetto azionario, ma con poco più del 5 per cento in portafoglio la famiglia Agnelli controlla saldamente la società. Sull’altro piatto della bilancia, quello dei costi, ci sono essenzialmente la spesa stratosferica per l’acquisto di giocatori, che magari si “rompono” a metà stagione, e gli stipendi, che hanno raggiunto cifre folli. Attualizzando i costi a prezzi correnti, nella stagione ’82-’83 i club italiani di serie A e B pagavano uno stipendio medio di 52.340 euro, oggi siamo a 711.161 euro, con un incremento del 1.360 per cento. Non basta. Ci sono squadre che annualmente pagano solo in stipendi più del loro fatturato. Nella stagione 2000-2001 (sono gli ultimi dati disponibili) il Parma ha speso più di quanto incassato (110,3 per cento), seguito in questa poco edificante classifica da Fiorentina (96,6), Inter (88,7) e Lazio (82,9). Da un’inchiesta pubblicata lo scorso luglio dal Sole 24 Ore e intitolata Calcio, un crac da mille milioni, risulta che in Serie B c’è chi ha fatto pure di peggio: Ternana (183,1), Torino (181,2), Piacenza (173,5), Venezia (155,3), Sampdoria (155,2), Chievo (122,6), Genoa (104,7) e Cagliari (101,1). Ancora più munifici in Serie C1, dove la Spal ha speso per stipendi il 287,9 per cento delle sue entrate e in C2, dove si registra il record assoluto del Foggia, 381,8 per cento. 

Domanda: come potrebbe un commerciante che incassa (si badi bene, incassa, non guadagna...) 5.000 euro al mese spenderne 24.000 per pagare i suoi dipendenti? Risposta: si faccia spiegare il trucco dal Foggia calcio, che quell’anno dichiarava 0,26 milioni di euro di incassi al botteghino, 0,54 milioni di proventi da sponsor e 3,04 milioni di uscite per stipendi lordi. Ognuno è ovviamente libero di buttare i soldi come meglio crede, poi però bisognerebbe aver il buongusto di evitare i ricorrenti piagnistei sulla crisi del sistema. Per arginare la falla, a fine gennaio la Lega Calcio ha chiesto un taglio immediato degli stipendi (sarà interessante vedere chi ci sta) e ha anche stabilito che nella prossima stagione il costo del lavoro non potrà superare l’80 per cento del fatturato, percentuale che dovrà scendere al 60 per cento nel campionato successivo. Come, visto che i giocatori più pagati hanno contratti pluriennali? Altra ipotesi allo studio, una specie di formula bonus-malus, che legherebbe il pagamento di un quinto dello stipendio al raggiungimento degli obiettivi prefissati dalla squadra al momento dell’ingaggio. Guarda caso, nessuna delle società quotate ha però mai pensato di pagare parte dei megastipendi in azioni societarie. Il sistema delle stock option, del resto, ha già funzionato male in aziende coi conti in regola, figurarsi cosa accadrebbe nel mondo del pallone, dove le perdite disastrose finora schivate dai calciatori sono invece ricadute in pieno sulle spalle di milioni di tifosi, che si erano avvicinati all’investimento in Borsa non come speculatori ma per adempiere a una sorta di obbligo morale: finanziare, sia pure in piccolo, la propria squadra. Anche se ora, stando ad un sondaggio dei tedeschi di Ufa Sports, ben l’84 per cento dei tifosi italiani (ed è la percentuale più alta in Europa) non comprerebbe mai azioni di club calcistici. La spiegazione è nei numeri: nel solo 2002, a fronte di una flessione del Mibtel del 23,5 per cento e del martoriato indice Numtel del Nuovo Mercato del 50,1 per cento, la Roma ha perso il 58,5 per cento, la Lazio il 61,4 e la Juventus campione d’Italia il 55,8. Questi, invece, i cali al 31 dicembre 2002 rispetto al prezzo di collocamento: Roma -78 per cento, Lazio -67,3 per cento, Juventus -57,6 per cento (contro il +533,3 per cento del Manchester).

Ma torniamo ai conti aziendali. Per calmierare il mercato dei trasferimenti, le 14 maggiori squadre europee – ma siamo ancora alle dichiarazioni di intenti – vorrebbero fissare un tetto salariale sul modello della Nba di pallacanestro statunitense, proposta rilanciata a gennaio anche dalla Lega calcio italiana. Anche perché il sogno di ripagare le follie estive coi diritti tv è tristemente svanito: lo scorso autunno la Rai ha fatto i suoi conti e dopo un lungo braccio di ferro alla fine si è aggiudicata per tre anni la trasmissione in chiaro delle partite al prezzo di 186 milioni di euro, 62 a stagione. 186 milioni di euro contro i 295 pagati da Rai-Telepiù per il ’93-’96, i 646 sborsati da Tmc-Telepiù per il ’96-’99 e i 264 del contratto triennale Rai appena scaduto. Tutti contratti assegnati al termine di un’asta – che lo scorso anno è andata deserta – con un solo partecipante che se l’è aggiudicata con una specie di prendere o lasciare. Ancora peggio va però in Germania, dove il magnate televisivo Leo Kirch ha dichiarato bancarotta e in Gran Bretagna, dove a fallire, travolgendo le squadre delle divisioni inferiori, è stato il canale Itv Digital. Come se ciò non bastasse, in tutta Europa la Champions League ha subito un calo preoccupante di spettatori, con la conseguenza diretta di deprezzare il valore di mercato dei diritti televisivi e quella indiretta di una minore visibilità degli sponsor, a loro volta una delle principali fonti di introito delle società calcistiche (il Manchester ricava un quinto delle proprie entrate proprio da questo filone). 

Il caso della Lazio tra debiti e campionato

Insomma, tornando a casa nostra, il fatto che il football sia lo sport più amato, con 3 milioni di praticanti e 18 milioni di appassionati che lo seguono abitualmente in tv, e che l’80 per cento della spesa annua degli italiani per assistere a spettacoli sportivi sia destinata al calcio, con circa 15 milioni di spettatori a stagione, tutto questo non è più sufficiente. Come non basta il moltiplicarsi di concorsi a pronostici e che il nostro sia l’unico paese in Europa con tre quotidiani sportivi e 6 milioni di lettori che ogni giorno divorano le pagine dei giornali dedicate al calcio. Eppure stiamo parlando di un mondo che stando alle classifiche di Mediobanca ha un volume d’affari che ne fa il ventesimo gruppo industriale italiano. Che fare allora? Tentare l’avventura della Borsa, hanno pensato alcuni, poi si vedrà. Incominciamo dalla Lazio, prima società calcistica italiana a entrare a Piazza Affari, per l’esattezza il 6 maggio del ’98, a un prezzo di offerta di 2,07 euro. Nella stagione ’98-’99 la squadra romana si classifica al secondo posto, con le azioni che oscillano fra 1 (-50 per cento) e 3 euro (+50 per cento), una volatilità che non ha confronti sul listino. L’anno successivo, all’ultima giornata, la Lazio vince lo scudetto, e le azioni sfiorano i 7 euro. Seguono poi due campionati interlocutori, ma non lontano dalle posizioni di vertice, e quello attualmente in corso, con la squadra in piena lotta per il primato. Eppure all’inizio del 2003 le azioni valevano 0,676 euro, con un guadagno del 32 per cento rispetto ai minimi dello scorso anno a 0,511 euro, ma con una perdita del 90 per cento rispetto ai massimi storici dei giorni dello scudetto. 

Si dirà: ma c’è stato il fallimento della Cirio, con la crisi che si è ovviamente estesa anche alla Lazio. Una giustificazione che non regge, in quanto dopo il crollo iniziale, la contendibilità della società calcistica messa sul mercato da Sergio Cragnotti ne ha fatto impennare le quotazioni. Circostanza, questa, che invita a una riflessione. A quasi cinque anni dal collocamento, solo in occasione della crisi societaria dello scorso autunno le azioni della Lazio si sono comportate secondo quanto ci insegna ogni buon manuale di Borsa. Il 14 novembre scorso si sono infatti improvvisamente diffuse le voci sul possibile ingresso nel capitale di quattro pretendenti dotati di fortissima liquidità (e alla Lazio sono proprio i soldi che mancano), il figlio del colonnello libico Gheddafi e tre manager di successo: l’imprenditore svizzero Ernesto Bertarelli, titolare dell’azienda farmaceutica Serono e proprietario di Alinghi, la barca che contenderà ai detentori di New Zealand l’America’s Cup di vela; Mario Moretti Polegato, l’uomo che ha inventato le scarpe Geox, un marchio di livello mondiale; il gruppo Gucci, leader nella moda ma con una recente attitudine alla diversificazione delle attività. Risultato, in una sola seduta il titolo della Lazio ha chiuso con un progresso del 25,5 per cento e con scambi dieci volte superiori alla media mensile. La spiegazione è semplice: il mercato scommetteva in un’Opa, un’offerta pubblica di acquisto, che sarebbe stata sicuramente superiore ai prezzi correnti, tra l’altro vicini ai minimi assoluti registrati dal titolo da quando è quotato. Questo perché nel caso di un’Opa totalitaria, il prezzo viene determinato tenendo conto sia di quello più alto pagato per le azioni ordinarie al momento del passaggio di controllo, sia della media aritmetica dei prezzi fatti segnare dal titolo negli ultimi dodici mesi. Quindi – anche se la società fosse stata svenduta a prezzi da realizzo – facendo la media coi prezzi storici il valore dell’Opa sarebbe stato di gran lunga superiore a quelli attuali, dunque con evidente grande convenienza per i possessori di azioni della Lazio.

Un ragionamento ineccepibile che però ha guidato gli scambi soltanto per poche sedute, fino a quando cioè ci si è convinti che gli eventuali acquirenti sarebbero rimasti alla larga in attesa di valutare il piano di salvataggio della controllante Cirio, piano che stavano faticosamente mettendo a punto alcune banche guidate da Capitalia. Se si esclude questa fase, che ha visto avvicinarsi in chiave speculativa anche chi fino ad allora non si era mai sognato di acquistare azioni della Lazio, nella sua tormentata vita a Piazza Affari il titolo ha dovuto sottostare a oscillazioni anche violente dettate non dai suoi fondamentali, ma dal risultato più o meno favorevole di una partita. Acquistare azioni della Lazio (ma lo stesso discorso vale anche per le altre società di calcio quotate) equivaleva insomma a scommettere sulle prestazioni della squadra. Alla vigilia di un incontro importante, supponiamo il derby, chi confidava in una vittoria correva a comprare un pacchetto di titoli. Se la previsione si rivelava esatta, il lunedì mattina si precipitava a vendere per realizzare la Dailyvalenza, altrimenti, in caso di sconfitta, rimaneva in attesa del primo rialzo utile per uscire dall’investimento. Per esemplificare, diamo un’occhiata all’andamento del titolo nella stagione 1999-2000, quella dello scudetto, limitandoci alle oscillazioni più brusche. 

Il 16 ottobre Udinese-Lazio: 0-3, all’indomani il titolo sale del 5 per cento. 21 novembre, la Lazio perde il derby 4-1, - 6 per cento. 2 gennaio, Venezia-Lazio: 2-0, la Lazio è saldamente seconda in classifica dietro la Juve, va molto bene in Champions League, eppure, per il fatto che con questa sconfitta sfumi il tanto simbolico quanto inutile titolo di campione di inverno, le azioni cedono il 5 per cento. 20 febbraio, Milan-Lazio: 2-1, aumenta il distacco dalla capolista Juventus e il titolo perde il 7 per cento. 19 marzo, sconfitta per 1-0 a Verona, 9 i punti di vantaggio della Juve (ma mancano ancora dieci partite alla fine), -9 per cento, con il titolo che scende sotto quota 3 euro. Seguono tre vittorie contro Roma, Juve e Perugia, i punti di ritardo si riducono a 3, e in due settimane il titolo sale di quasi il 30 per cento. Il campionato si mette molto bene per la Lazio, che però il 5 aprile, in Coppa, perde 5-2 fuori casa contro il Valencia, con il titolo che crolla del 14,5 per cento in un solo giorno. 15 aprile, 3-3 in trasferta contro la Fiorentina, dunque una battuta d’arresto, le azioni scendono dell’11 per cento. Arriviamo al 30 aprile, vittoria contro il Venezia e contemporanea sconfitta della Juve, +25 per cento. Ultima giornata, la Juve perde a Perugia e la Lazio batte la Reggina vincendo lo scudetto: dopo numerose sospensioni al rialzo il titolo chiude con un incredibile +59 per cento.

Ciliegina sulla torta, la Lazio vince anche la Coppa Italia, confermandosi la squadra del momento. Eppure i bilanci denunciano una società con forti problemi di indebitamento e con spese che continuano a galoppare rispetto alla pur sensibile crescita delle entrate. E quel che è più preoccupante, senza prospettive di riequilibrio, anzi con una tendenza negativa consolidata e destinata ad aggravarsi. Qualunque altra azienda quotata sarebbe stata valutata in base ai propri fondamentali e alle prospettive reddituali future, le squadre di calcio no: sembrano vivere in un mondo a parte, salvo poi tornare sulla terra quando ci si accorge di quanto fossero irreali e ingiustificati i prezzi stratosferici raggiunti nei momenti di euforia. 

Andamento del titolo e rischi di retrocessione

La stretta correlazione fra andamento del titolo e risultati conseguiti sul campo, partita dopo partita, è stata oggetto di studi approfonditi. A livello statistico si è visto che l’interdipendenza è tanto maggiore quanto più il risultato influenza il raggiungimento di un obiettivo. Se per esempio una squadra perde la partita di ritorno di Coppa ma supera ugualmente il turno in virtù della differenza reti, il titolo sale anche se in presenza di una sconfitta. Viceversa, se la squadra vince ma si infortuna il centravanti, oppure se vince anche la rivale diretta e le distanze restano invariate, o ancora se la vittoria non basta a passare il turno, il titolo scende.Una relazione di causa-effetto, questa, che è risultata valida a prescindere dal titolo considerato ma che è più evidente per alcune squadre rispetto ad altre e poi vedremo in cosa consista questa “differenza di reattività” delle quotazioni. Ma l’approccio empirico, con lo studio della serie storica dei risultati e dei riflessi sul valore delle azioni, non aiuta in alcun modo a determinare un range accettabile entro il quale dovrebbe oscillare un titolo calcistico all’indomani di un certo risultato. Il che rende l’investimento in questo comparto estremamente aleatorio e quindi rischioso. 

Per proteggersi da crolli clamorosi, alcune squadre inglesi si sono addirittura assicurate contro il rischio più temuto, quello della retrocessione. In teoria, poi, se tutte le squadre fossero quotate, si potrebbe arrivare ad oscillazioni borsistiche a sommatoria zero, nel senso che ai guadagni di alcuni titoli che salgono a seguito di successi sportivi, corrisponderebbero specularmente le flessioni di quelli legati alle formazioni sconfitte. Un circolo vizioso che trasformerebbe la Borsa in un grande gioco di società, dove vince (guadagna) chi azzecca la schedina del Totocalcio, un po’ come sul sito www.mibcalcio.it, un gioco di grande successo lanciato da Mediasetonline. Il ragionamento fatto per la Lazio vale ovviamente anche per Roma e Juventus. Dopo la sconfitta con l’Inter del 24 marzo 2002, che costò ai giallorossi il primato in classifica, il titolo perse il 7,7 per cento, bruciando in una sola seduta 13,7 milioni di euro di capitalizzazione. Quel giorno, dopo circa due anni di presenza sul listino, la squadra di Franco Sensi era arrivata a perdere complessivamente il 44 per cento del suo valore, in soldi 126,7 miliardi di euro, 245 miliardi di vecchie lire. Qualche giorno prima, il 20 marzo, all’indomani della sconfitta col Liverpool e della conseguente eliminazione dalla Champions League (che pure aveva fruttato 29 milioni di euro, 22 dai diritti Uefa e 7 dai botteghini) le azioni della Roma crollarono del 14 per cento. Stessa perdita subita – e questo ha dell’incredibile – all’indomani della conquista del terzo scudetto, il 18 giugno del 2000, quando il titolo scese a 5,46 euro, al di sotto del prezzo di collocamento di 5,5 euro. Gli esperti parlarono di realizzi dopo i forti rialzi delle settimane precedenti.

Rimane una costante, richiamata già all’inizio, e cioè che chi si quota vince subito lo scudetto. Circostanza puntualmente verificatasi in Italia (Lazio, in Borsa il 6 maggio ’98, vince nella stagione 1999-2000; Roma, 22 maggio 2000, vince il campionato 2000-2001; Juventus, 20 dicembre 2001, scudetto 2001-2002), ma piuttosto frequente anche all’estero. Chi crede nelle congiure, nelle dietrologie, negli arbitri venduti e via discorrendo ha la risposta pronta. In realtà le spiegazioni sono due: una abbastanza imponderabile, ma alla quale si vuole attribuire a tutti i costi un gran peso, vale a dire la maggiore responsabilizzazione dell’intera società, dai dirigenti ai giocatori; l’altra, decisamente più concreta, è che in quella stagione si parte con un vantaggio economico incolmabile rispetto alle altre squadre: dal collocamento la Roma incassò 32 miliardi di vecchie lire, la Lazio 59, la Juve 121. Quando già dopo un anno questo vantaggio sfuma, sia perché i soldi spariscono sia perché il titolo crolla, ecco che il campionato si riequilibra. Come uscirne, allora? Quali risultati finanziari ed economici perseguire, visto che parliamo di imprese e non di club amatoriali, e come scinderli il più possibile dai risultati agonistici? 

L’idea più originale l’ha avuta il Galatasaray, sul listino turco dal 20 febbraio del 2002. 20 milioni di tifosi in patria e 7 all’estero, la società di Istanbul per svincolare il corso delle azioni dai risultati del campo, dai costi, dagli stipendi e dagli infortuni dei giocatori, non ha quotato la squadra: sul mercato è finita la struttura esterna, che controlla e gestisce i diritti televisivi, il merchandising, i rapporti con gli sponsor e tutte le attività di promozione. Una società quotata che potrebbe essere inserita tranquillamente nel comparto dei media. Qualche dato: lo scorso anno il fatturato è stato vicino ai 25 milioni di euro e ben 23 milioni sono stati gli utili. Il price earning (vale a dire il rapporto prezzo-utili, in sostanza il numero di anni necessari ad un impresa ad acquistare se stessa ai prezzi di mercato con gli utili che nel frattempo riesce a produrre) è solo di 5,4 contro il 63 che mostrava lo scorso anno la Juventus. In più, per contrastare la svalutazione della lira turca, il dividendo – per ora annuale – diverrà presto trimestrale. In attesa di poter valutare alla distanza l’esperienza della società turca, cerchiamo di capire i segreti del Manchester, l’unica squadra ad aver avuto successo sul campo come in Borsa, e senza ricorrere a scorciatoie. La ricetta è semplice. Considerare il calcio come un’industria vera e propria, con la squadra nel ruolo dei fattori di produzione, le partite che non sono altro che i prodotti offerti sul mercato e gli spettatori in veste clienti. La scommessa, come dicono gli inglesi, è quella di riuscire a spostare l’asse dallo score al brand, dal risultato al marchio. Una scommessa che al Manchester è riuscita in pochi anni. Quotata il 7 giugno del ’91 a un prezzo di 19,25 pence, dopo aver toccato il suo massimo storico il 23 marzo del 2000 a 412,5 pence, il 31 dicembre scorso, in piena crisi dei mercati, un’azione del Manchester era scambiata a quota 104 pence.

Il fatto che questa strada vincente sia stata percorsa con successo da pochissime squadre, spiega fra l’altro l’andamento fallimentare dell’unico fondo di investimento al mondo dedicato al calcio, il Singer & Friedlander Football Fund, lanciato con grande entusiasmo nel ’97. Al 31 dicembre del 2001, quando aveva già perso il 40 per cento del suo valore, il fondo venne “convertito” in un altro (in parole povero, lo chiusero). Secondo Morningstar, agenzia internazionale di analisi e valutazione di fondi, in un certo senso il fallimento dell’esperienza borsistica del mondo del calcio ha anticipato in piccolo lo scoppio della bolla speculativa che ha investito le aziende tecnologiche, molte delle quali sono state collocate con lo stesso pressappochismo e con lo stesso scopo, far soldi senza fatica approfittando della voracità – in gran parte indotta – dei piccoli risparmiatori. A parte gli incassi ai botteghini, che dipendono ovviamente anche da come va la squadra, le uniche entrate certe ( ma come abbiamo visto sono anche queste in calo) sono rappresentate dai diritti tv. Sul resto bisogna darsi da fare, e il Manchester ha puntato proprio su questo “resto”, diversificando al massimo ed ottimizzando le sue fonti finanziarie e fruendo, fra l’altro, della nascita di Premiership, una sorta di consorzio formato dalle 20 squadre della prima divisione. 

E’ infatti compito di questa associazione sottoscrivere accordi per i diritti televisivi, per la cartellonistica negli stadi e per la sponsorizzazione del campionato. Un bell’esempio da seguire anche da noi, come indica il confronto fra i conti: nello scorso campionato il fatturato di Premiership è stato di 1,5 miliardi di euro, 400 milioni in più della nostra Serie A, con utili per 134 milioni di euro contro le perdite in Italia pari a 216 milioni. Ma torniamo al Manchester. 45 milioni di tifosi sparsi in tutto il mondo vanno coltivati, e quindi la società è stata fra le prime ad aprire un proprio canale tv che trasmette partite, allenamenti, interviste, incontri fra club di tifosi, novità nei prodotti legati al marchio. Roma, Inter, Milan e Juventus hanno copiato l’idea, ma da noi il numero degli abbonati è ancora scarso. Al Manchester i diritti tv continuano a garantire ingenti flussi di denaro, basti pensare che, dall’88 ad oggi, la crescita media annua di questa voce è stata del 56,89 per cento, pur rappresentando, mediamente, solo fra il 10 e il 15 per cento del fatturato complessivo. Per squadre come Inter e Milan, invece, i ritmi di crescita di questa voce sono limitati, ma al contrario di quanto avviene per la squadra inglese, che ha saputo diversificare molto meglio, i diritti tv coprono fra un quarto e un terzo delle entrate. Perché Oltremanica il mercato si espande e da noi no? Una delle ragioni risiede nel fatto che in Italia la pirateria non è sufficientemente combattuta, e tutti possono procurarsi con facilità una card falsa per vedere le partite criptate della propria squadra del cuore. 

Stessi problemi per il merchandising, vale a dire per la diffusione dei gadgets legati alla squadra, dalle magliette alle bandiere, dai calendari ai portachiavi. In Italia quasi tutte le maggiori società calcistiche hanno dato questa attività in appalto, e quindi il loro ritorno economico è evidentemente ridotto. In più, qui da noi impazza il falso, ovviamente a prezzi imbattibili. Nell’anno dello scudetto, l’ufficio legale della Lazio stimò che i 4/5 dei suoi tifosi avevano acquistato oggettistica contraffatta. Il Manchester gestisce invece tutto in proprio, con grande abilità, lanciando sempre nuovi prodotti ma avendo dalla sua anche due forti vantaggi: il primo, che in Gran Bretagna la guerra ai falsari è dura ed efficace; il secondo che lì, a differenza che da noi, i capi d’abbigliamento coi colori societari vengono orgogliosamente indossati anche al di fuori degli stadi. Maggiore capacità di veicolare il marchio e migliore visibilità, anche all’estero, sono due dei fattori che contribuiscono ad accrescere l’interesse degli sponsor. Ecco che dall’88 il loro contributo al fatturato del Manchester è cresciuto del 25,5 per cento all’anno, e per il futuro il ritmo di crescita atteso è del 16 per cento. 

Negli ultimi anni la società è passata da Sharp a Vodafone e da Umbro a Nike, che adesso cura totalmente l’immagine del club. Dei 45 milioni di tifosi, i 20 in patria spendono in media 3 sterline l’anno (5 euro) in gadgets, quelli che vivono all’estero appena 9 pence (15 centesimi di euro, 300 vecchie lire): il Manchester e la Nike (che pagherà di qui al 2015 circa 8,8 milioni di euro l’anno) sperano quindi di rinvigorire il mercato internazionale, in particolare quello extra-europeo. Più concentrata sull’interno e sull’Europa, invece, la strategia della Vodafone, che ha firmato un contratto che la impegna a sborsare 50 milioni di euro in 4 anni: uno dei possibili sviluppi, la tecnologia Umts, con la possibilità di vedere sul telefonino le azioni salienti delle partite in tempo reale. Merchandising e sponsor coprono ora circa il 50 per cento delle entrate del Manchester, solo il 25 per cento di quelle della Juventus, meno ancora per Inter e Milan. Altro fattore di primo piano, la gestione dello stadio. Lo stadio come punto di incontro per i tifosi ma anche per le loro famiglie, dove andare a vedere la partita e poi fermarsi a cena, girare per negozi, passare il tempo in grandi sale giochi, andare al cinema, visitare il museo della propria squadra. Uno stadio con tutti posti a sedere e coperti, senza pista di atletica, pensato per il calcio ma utilizzabile anche per altre manifestazioni e dunque con strutture da affittare durante la settimana per concerti, meeting o manifestazioni politiche. 

In Italia, da questo punto di vista, siamo in forte ritardo. Nel giugno scorso la Juventus ha sottoscritto un accordo col comune di Torino, acquisendo per 99 anni al prezzo di 24 milioni di euro il diritto di superficie dello stadio Delle Alpi. Per il momento, quindi, solo la Reggiana (attualmente in Serie C1) possiede lo stadio nel quale gioca. Stadio dotato dopo otto mesi di lavori di 10 mila posti auto, ingressi indipendenti per i tifosi della squadra ospite, metaldetector ai cancelli e circuito per riprese tv all’interno e all’esterno dell’impianto, 10 tra bar e punti di ristoro, servizi igienici in numero sufficiente e ben curati. In costruzione, un’area commerciale adiacente allo stadio di 25 mila metri quadrati. Il vero salto di qualità lo potrà fare la Juventus, quando “Mondo Juve” diverrà una realtà: 53 ettari con la nuova sede societaria, il centro sportivo della prima squadra, campi di allenamento e aree commerciali, insomma quella entertainment company che in Gran Bretagna, dove ben 30 club possiedono e gestiscono i loro impianti, in molti casi è già una perfetta macchina da soldi. L’utilità di questo tipo di scelta è duplice, in quanto trattandosi di investimenti di lungo periodo e dal ritorno economico praticamente certo, diminuiscono anche il profilo di rischio del capitale societario concorrendo a ridurre la volatilità del titolo.

Calcio e imprenditoria: il caso del Manchester

Tornando al Manchester, nel lontano 1997 aveva ricavato dallo stadio Old Trafford e dalle strutture annesse un guadagno netto di 8 milioni di euro, biglietti per le partite esclusi, una somma che nel 2001 è quasi raddoppiata. 55.000 posti, tutti a sedere, suite esclusive per complessivi cinquemila posti, sistema televisivo a circuito chiuso che consente un controllo capillare dei tifosi, campo riscaldato per proteggere il manto erboso anche nelle stagioni fredde: questo il frutto di una politica intelligente, che oltretutto ha garantito un rapido recupero degli investimenti. E a proposito di botteghini, il Manchester ha battuto un altro record: prima dell’avvio della scorsa stagione ha venduto con una campagna particolarmente accattivante ben 41.000 abbonamenti, il che fra l’altro contribuisce a stabilizzare le quotazioni azionarie perché in tal modo le entrate di questo tipo sono soggette solo in parte agli umori della tifoseria. Inoltre i soci dei Manchester club sono 120 mila, e ovviamente pagano una quota. Quanto alla ristorazione, genera da sola un fatturato di 3 milioni di euro, ma ora il club dei “Diavoli Rossi” punta ad un obiettivo davvero ambizioso: aprire “Red Cafè” in tutto il mondo, attraverso una catena di franchising. Luoghi di ritrovo per i tifosi, che con l’occasione potranno anche acquistare i gadgets della loro squadra. 

Ma i dirigenti del Manchester hanno recentemente escogitato altre nuove idee, che sembrano promettere molto bene. Per fidelizzare lo spettatore-tifoso-cliente, la società propone ora tutta una serie di servizi finanziari, dai mutui ai prestiti alle carte di credito, e adesso stanno pensando anche al turismo, per offrire, ad esempio, soggiorni vacanza a prezzi vantaggiosi per chi segue la squadra in trasferta negli incontri di Coppa e vuole fermarsi per visitare il posto. Ma il Manchester non agisce soltanto sul fronte delle entrate. Per contenere le uscite alla voce stipendi, una parte è ora legata ai risultati del campo, sotto forma di premi partita che vengono pagati mano a mano che si superano obiettivi prefissati in ciascuna competizione. Altra forma di risparmio, l’investimento nel vivaio. L’Italia una volta produceva talenti, poi è sembrato più comodo comprarli all’estero, anche se più di una volta abbiamo importato autentici brocchi. Il Manchester ha in assoluto una delle migliori scuole di calcio per ragazzi, il Newcastle ha investito nel settore giovanile 15 milioni di euro a stagione, l’Ajax ha rinunciato a spendere il ricavato del collocamento in Borsa per l’acquisto di nuovi giocatori, utilizzando le nuove entrate per potenziare il marchio e per formare i campioni del futuro, campioni poi venduti a peso d’oro, come Van Basten, Overmars, Rijkard, Kluivert e Davids. E per il Manchester i risultati si sono visti, non solo in Borsa ma anche a livello aziendale. Alla chiusura della stagione 2001-2002, ha infatti registrato un aumento dei profitti di ben il 48 per cento rispetto all’anno precedente, un risultato da far invidia a una società della new economy dei tempi d’oro. 

Campione d’Inghilterra per tre anni consecutivi dal 1999 al 2001, nel 2002 i Red Devils non si sono ripetuti ma questo non ha influito sul titolo e sui bilanci, tanto che al 31 luglio del 2002 gli utili avevano oltrepassato i 33 milioni di sterline, 50 milioni di euro. In attesa che si concretizzi l’idea di una Superlega europea, che all’incertezza di una possibile eliminazione in Coppa sostituisca la sicurezza economica di una competizione internazionale di altissimo livello con partite garantite, la strada da seguire è dunque quella del Manchester. Una società che con grande lungimiranza ed efficacia ha saputo applicare al calcio i princìpi dell’imprenditoria moderna. 

28 marzo 2003

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