Mezzogiorno: i problemi si risolvono, non si aboliscono
di Massimo Lo Cicero

Gianfranco Viesti, un bravo economista che da sempre si occupa delle politiche per lo sviluppo del Mezzogiorno, ha pubblicato un volume dal titolo “Abolire il Mezzogiorno”. Non è un caso comparabile con quello di un Papa che in una enciclica proponesse di abolire la Chiesa ma si presta al paragone provocatorio. Dal punto di vista della cronaca, tuttavia, si tratta del classico evento in cui un cane morde un uomo: e la stampa, nazionale e locale, ha riportato clamorosamente la notizia, come impone la tradizione retorica del giornalismo. Il volume di Viesti, tra l’altro, è assai meno scandaloso del suo titolo, perché ripropone il punto di vista dell’autore, già molto noto a chi frequenta la letteratura sullo sviluppo economico italiano. Viesti si colloca, con grandi qualità scientifiche ed analitiche, sul fronte di coloro che non credono nell’espansione del reddito come leva necessaria dello sviluppo. Ritiene che lo sviluppo si misuri a partire da altri valori, meno materiali di quelli della ricchezza espressa a prezzi di mercato, e ritiene che, di questi valori intangibili e meta-economici, il Mezzogiorno sia ancora più ricco del Nord del paese. Infine, Viesti legge la politica economica attraverso le lenti della geografia, lungo la scia di Paul Krugman, e ritiene, di conseguenza, che un sistema sociale dinamico e coeso possa procedere endogenamente lungo la strada del proprio progresso senza, necessariamente, dipendere, da aiuti e sussidi finanziari alle imprese e senza diventare, accettando quei sussidi, dipendente dalla regione o dal governo che li concede graziosamente.

Fin qui saremmo nel normale contesto di una discussione tra economisti. E, tra economisti, si potrebbe obiettare a Viesti che la geografia non basta e che la ricchezza materiale è comunque necessaria: perché se non ci sono torte abbastanza grandi da affettare è difficile distribuirne le fette agli individui che compongono la comunità in dimensioni compatibili con le loro aspettative di benessere. Ci vogliono, di conseguenza, istituzioni amiche dei mercati che intervengano per rimuovere gli ostacoli alla produzione di ricchezza materiale e consentire alla comunità locale di interpretare i propri valori meta-economici in maniera adeguata: realizzando un modello di sviluppo che non deve necessariamente essere la brutta copia del vituperato, e spesso reso in termini troppo caricaturali, modello americano. Anche i paesi europei, tranne la orgogliosa Francia, cominciano a pensare che il modello alternativo, quello renano, sia diventato impraticabile ed insostenibile. Ma questi sono problemi di gusti in materia di politica economica e ”de gustibus non est disputandum”, come recita la nostra saggezza nazionale pre-capitalistica, condivisa da larga parte del pianeta.

La discussione con Viesti si dovrebbe sviluppare, invece, ma questo non è stato possibile leggerlo nella vasta quantità dei commenti al suo volume, su un altro punto. Le cose che dice Viesti in materia di politica regionale in Italia hanno trovato piena applicazione anche grazie al concorso di Viesti, ed il risultato non è stato affatto brillante, e non solo per colpa di Viesti certamente. Agire valorizzando la comunità locale e le sue forze endogene, la cooperazione e la fiducia e smantellare la macchina dei trasferimenti pubblici derivanti da trasferimenti finanziari è stato il programma dei governi italiani: dalla crisi del 1992 fino al ritorno del centrodestra al governo meno di due anni or sono e tranne la breve parentesi del primo governo Berlusconi. I governi di centrosinistra in altre parole hanno abolito i residui dell’intervento straordinario, hanno trasformato gli incentivi finanziari in una sorta di asta competitiva dei sussidi alle imprese, hanno creato uno zombie e lo hanno chiamato Sviluppo Italia per promuovere i fantomatici progetti di marketing e sviluppo territoriale, hanno lanciato la parola d’ordine della programmazione negoziata e top down come strada maestra per le comunità che volevano creare il proprio futuro a partire dalle proprie risorse endogene e dalle proprie tradizioni. Non vorrei apparire brutale ma il Mezzogiorno non ha risolto né i suoi problemi di nanismo industriale né quelli di gap infrastrutturale né quelli, ovviamente, del divario tra il proprio reddito e quello del resto del paese. E, nella tornata elettorale successiva, la maggioranza di centrosinistra ha perso le elezioni: l’elettorato ha giudicato insoddisfacenti i risultati di questa politica.

Anche gli elettori si possono sbagliare e non è detto che il governo in carica abbia sempre agito molto meglio di quelli precedenti: certamente ha dovuto confrontarsi, e si confronta ancora, con l’inerzia amministrativa delle vecchie politiche. Una volta lanciato il carro in direzione delle quattro grandi intuizioni del centrosinistra ci vuole un certo tempo per far cambiare opinioni, abitudini e modo di fare alla “flessibile” amministrazione locale e nazionale del nostro paese. Bisogna dire chiaramente che i fallimenti del centrosinistra non sono derivati dalle idee di Viesti ma dal modo singolare in cui la politica italiana ha interpretato le suggestioni di questa leva di economisti à la Paul Krugman. Mettere insieme i cadaveri della peggiore tradizione dell’intervento straordinario, e dare vita allo zombie Sviluppo Italia mentre scompariva il sistema bancario meridionale, ha privato quelle regioni della leva della finanza per la crescita. Il mondo intero, al contrario, afferma che Finance for Growth è la strada dello sviluppo: si pensi allo sforzo messianico di World Bank in questa direzione.

Mettere all’asta i sussidi non è una buona idea per superare i clamorosi fallimenti del mercato creditizio: perché in quel mercato si comprano rischi, cioè costi, mentre nel mercato degli incentivi si comprano regali, cioè benefici gratuiti, aprendo enormi finestre di opportunismo per le imprese, le banche ed i consulenti delle une e delle altre. Infine, ma non è assolutamente meno importante, dare agli enti locali la funzione di base operativa dello sviluppo locale è un clamoroso errore di indirizzo. Perché gli enti locali sono, al massimo e nemmeno in regime di monopolio, il motore della produzione di beni pubblici ma il motore della crescita sono le imprese. E senza le imprese non si producono né beni pubblici né beni privati. C’è in questa scelta un residuo di socialismo dal basso che fa sorridere sia i socialisti che i liberali, evidentemente.

Che fare? I problemi si risolvono e non si aboliscono. Abolire il Mezzogiorno è frase azzardata, perché si presta all’ironia di una favola molto nota: quella della volpe e dell’uva. Non voglio l’uva perché è acerba o perché non riesco a prenderla? Riprendere a parlare degli strumenti per prenderci l’uva del benessere anche nella parte debole del paese, dunque, è una cosa buona e giusta. Per questo motivo, e non per le molte ragioni raccontate dai recensori di Viesti, il suo libro è utile. Viesti non merita di essere considerato un “futurista”, il Marinetti delle politiche regionali: perché, al contrario, è un vero economista.

28 marzo 2003

maloci@tin.it


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