Alla ricerca del football perduto
di Italo Cucci
da Ideazione, marzo-aprile 2003

Medici, stregoni e fattucchiere s’affannano intorno al Calcio Malato nel tentativo – quasi sempre velleitario – di metter fine alle sue sofferenze. Il che fa pensare più a una forma di eutanasia che a un’effettiva terapia. Il motivo di fondo di questa tragicommedia nazionale è legato ad abitudini fortemente italiche la cui portata esiziale è già stata sperimentata in altri campi: i soccorritori del calcio – ai più alti livelli istituzionali – sono gli stessi che lo hanno portato al penoso stato presente. Essi sono – avrebbe detto Artemio Franchi, il più preparato e intelligente dei dirigenti del calcio italiano e europeo troppo presto scomparso – la Costante Negativa di un gioco che gli italiani hanno eletto a svago primario ma soprattutto a metafora della loro vita. E ora vien voglia di chiedersi: “Che fare?”. Prima, meditare. La storia è poco edificante, certo intrigante. Comunque istruttiva. Succede spesso che le società calcistiche più deboli e umili e povere siano punite non dalle ovvie difficoltà esistenziali – ampiamente preventivate – ma dai successi: questi, il più delle volte sorprendenti. L’evangelico messaggio “e gli ultimi saranno i primi” è certo esaltato da questo sport la cui filosofia è tutta nel motto “la palla è rotonda” che Brera volle nobilitare inventando Eupalla. Ma è anche un messaggio crudele, perché questi inattesi Primi non sono premiati per sempre ma fatalmente destinati a diventare gli Ultimi. Esempi? Eccoli. 

Senza scomodare la preistoria, limitiamoci a un percorso poco più che trentennale. La Fiorentina di Bruno Pesaola vince lo scudetto nella stagione ’68-’69, il presidente è un imprenditore ricco e illuminato, Nello Baglini, fabbricante di inchiostri per l’editoria; appena due anni dopo, nella stagione ’70-’71, la squadra viola si salva dalla retrocessione per miracolo, ovvero per una serie di risultati choccanti che portano in Serie B, forse incolpevole, il Foggia. Del che alcuno si scandalizza. La Fiorentina ha presto dissipato il tesoro-scudetto insieme agli ultimi milioni del parsimonioso ma abile Baglini, che ha colto l’affermazione con un gruppo di soli diciassette giocatori governati con piglio paterno. Andrà meglio al Cagliari, vincitore l’anno dopo (campionato ’69-’70) soprattutto per merito del bomber Gigi Riva, passato giovanissimo alla leggenda del calcio: ci vogliono ben sei stagioni – e numerosi infortuni a Riva – per costringerlo alla resa. La Lazio, caduta in B nella stagione ’70-’71, sollecitamente risalita, si piazza terza nel ’72-’73 e l’anno dopo vince uno scudetto entusiasmante dopo un lungo duello con la potente Juventus. La Lazio non è potente, il suo presidente – Giuseppe Lenzini – non è ricco, né scemo per fortuna; la squadra gioca un calcio di alta qualità (proprio come “quella” Fiorentina e “quel” Cagliari) grazie a Tommaso Maestrelli, un tecnico eccellente, e Giorgio Chinaglia, un “grande” indiscusso (dai laziali, ché in Nazionale solleverà mille polemiche). La Lazio s’arrangia per sei stagioni, poi crolla: l’implacabile Legge del Soldo la punisce.

Dal trionfo, inedito, dei romani biancocelesti, trascorrono dieci campionati prima che un’altra squadra non titolata entri nel libro d’oro del calcio italiano: è il Verona del presidente Ferdinando Chiampan, scudetto nell’ ’84-’85, retrocessione nell’ ’89-’90. E non basta: la società scaligera fallisce e nel ’92 Chiampan viene arrestato per bancarotta fraudolenta e frode fiscale. Uscito dal carcere, confessa: “Dovevo dare retta a chi mi consigliava di mollare tutto appena vinto lo scudetto. I potenti del calcio, se li batti, non perdonano”. Forse esagera, ma c’è una certa verità, nelle sue parole: quando due anni dopo, infatti, si afferma il Napoli di Corrado Ferlaino ma soprattutto di Diego Armando Maradona, uno dei più grandi calciatori di tutti i tempi (gli altri sono Alfredo Di Stefano e Edson Arantes do Nascimento detto Pelè), l’avvocato Agnelli – il “grande ironico”, il padrone della Juve superscudettata ch’è arrivata seconda con rabbia – se ne esce con una battuta: “Niente di preoccupante, è solo uno scudetto in libera uscita”. È il 1987, il Napoli del Pibe de Oro non demorde, arriva secondo l’anno successivo (fra mille sospetti legati alle scommesse della camorra) e ancora nella stagione ’88-’89, poi il secondo scudetto (’89-’90), l’apoteosi, il declino, la fuga di Maradona, la crisi, il dramma che – accentuatosi con la retrocessione del ’98 – ancora non è finito. L’eredità del Napoli è raccolta nella stagione ’90-’91 dalla Sampdoria, gestita con spirito mecenatesco dal petroliere Paolo Mantovani che ha portato a Genova grandi campioni come Luca Vialli e Roberto Mancini. E’ l’ultimo scudetto “in libera uscita” perché i successivi arrivati a Roma nel 2000 e nel 2001, alla Lazio prima e alla Roma poi, fanno già parte del “calcio industriale” sopravvenuto dopo un secolo di calcio pressoché artigianale. Dimenticavo: la Sampdoria è retrocessa nel ’99 e sta ancora aspettando la resurrezione.

Questo accidentato percorso – che raramente vi sarà descritto nella narrazione abituale delle mirabolanti imprese del calcio – è la dimostrazione della inaffidabilità dei dirigenti dell’industria calcio, sempre portati a spendere più di quanto non guadagnino. E ciò accade, in particolare, non tanto nel predisporre le strategie adeguate a un progetto di conquista quanto – abbiamo visto – nell’impegno di mantenimento dello status sportivo e aziendale successivo alla conquista medesima. L’investimento è più forte dopo, quando si vuol tenere il passo delle Grandi sfidate, tradendo dunque lo spirito prettamente tecnico-sportivo che ha consentito di vincere lo scudetto. A sorpresa. Finito l’effetto-sorpresa, comincia la vita difficile. L’indebitamento dovuto all’acquisto di giocatori sulla carta sempre più forti e affidabili è il primo passo verso la rovina. Il che non è una novità se è vero – com’è vero – che già nel 1958 l’indimenticabile presidente del Coni, Giulio Onesti, se ne usciva con una storica affermazione: “In questo paese economicamente disastrato, il calcio si dissangua per acquistare giocatori stranieri. 

I dirigenti si fanno spesso guidare dal tifo e stupisce che fra costoro vi siano grandi imprenditori che reggono con oculatezza grandi aziende. Come si conciliano le spese da nababbi con i disastrosi bilanci delle società calcistiche? Ci facciamo rider dietro da mezzo mondo come i ricchi scemi del calcio”. Sono passati quarantacinque anni, l’interrogativo è lo stesso, la situazione sempre più grave, sempre meno seria. Con un particolare: dai primi anni Sessanta il Barnum calcistico è vissuto sul filo del rasoio grazie all’invenzione di un presidente della Federcalcio, Giuseppe Pasquale (prima magnate della finanza, imprenditore dalle mani d’oro, poi bancarottiere, imprigionato e demolito dalla Finanza) che introdusse le Società per Azioni “senza fine di lucro”. Più tardi, un’idea certo meno felice, firmata Veltroni&Melandri, mentre cancellava la gherminella di Pasquale e trasformava le società calcistiche in Spa a tutti gli effetti, apriva le porte al disastro: prima vittima, la Fiorentina, sportivamente fallita e retrocessa addirittura in C2. Le altre vittime, dopo lo spavento subìto dalla Lazio dell’avventuroso Sergio Cragnotti, sono in arrivo. E dire che tutto è stato fatto per consentire proprio a Cragnotti di quotare in Borsa la Lazio e introdurre così un elemento in più di rischio in un calcio che ormai deve fare i conti con i tribunali veri, non quelli dei “processi” calcistici che, dagli anni Cinquanta, venivano allestiti a Cesenatico dal Conte Alberto Rognoni, “onestiano” di chiara fama, che tuonava sì contro i ricchi scemi ma ne leniva le pene con le ardite e spassose pagine del Guerin Sportivo nel quale crebbi sapendo che un giorno sarebbero arrivati i Carabinieri. 

Quando la Lazio entrò in Borsa, Giuseppe Turani scrisse che un evento del genere non si sarebbe potuto verificare neppure alla Borsa di Seul. Ed è tutto dire. Trovare enormi quantità di soldi e spenderne ancor di più è stata la regola di vita del calcio. Che prima si è mangiato i proventi del Totocalcio, finché il medesimo non è stato divorato dal Superenalotto. Che ha sperperato i soldi della Rai, finché la Rai ha stretto i cordoni della borsa suscitando reazioni addirittura paradossali, come la (per fortuna subito abortita) richiesta di “stato di crisi” avanzata dai dirigenti della Lega pochi mesi fa. È lo stesso calcio che – travolto dalla follia televisiva – ha puntato tutto sui relativi diritti, passati da due a duemila miliardi nel giro di vent’anni grazie all’avvento delle tivù a pagamento, prima Telepiù poi Stream. Quando hanno deciso di fermare l’emorragia che le stava uccidendo, le due pay tv, oggi prossime alla fusione per sopravvivere nelle mani del magnate della comunicazione Murdoch, hanno reso drammatico lo stato dell’industria calcio, attualmente afflitta da un deficit di oltre duemila miliardi di lire. E intanto, per quel fiume di denaro presto inariditosi, il calcio ha venduto l’anima alla tivù. Dove sono finiti tutti questi soldi? Nella tasche dei calciatori e dei loro procuratori, beneficati da ingaggi che spesso superano il 60 per cento dei fatturati. Tutto ciò, senza alcun vantaggio per lo spettacolo – sempre più deprimente – né tantomeno per la natura stessa del calcio, ormai contaminata da eccessi monetari che hanno pian piano distrutto i valori sentimentali del popolarissimo gioco del pallone. 

Per tornare alla dolorosa sequenza con la quale ho iniziato questo rapido viaggio alla ricerca del calcio perduto, devo affiancare il dato che conferma la libidine dissipatoria di questo sport sempre meno sport sempre più spettacolo e business, showbitz come dicono i cragnottiani spinti: il dramma globale è cominciato dopo la favolosa stagione azzurra che ci portò alla conquista del Mundial ’82, l’impresa indimenticabile che fu portata a termine da un uomo modesto e onesto e lavoratore e saggio, Enzo Bearzot, contro gli stessi dirigenti della Nazionale. Dovevamo capire subito che quel miracolo di passione, sacrificio e italianità sarebbe stato mal gestito. Oggi, lo showbitz dei ricchi scemi ci ha portato anche a soffrire i penosi risultati di una Nazionale declassata a scomoda distrazione dagli affari correnti, a disturbatrice dei manovratori che hanno ben altro in testa: di sicuro non l’onore della bandiera calcistica in cui s’avvoltolarono Sandro Pertini e Giovanni Spadolini. Il loro epigono, Carlo Azeglio Ciampi, tenta di convincere i giovani calciatori azzurri a cantare l’Inno di Mameli. E loro magari ci provano, ma non ci riescono. Prima di tutto, perché sono figli di un’Italia sinistrata che per anni si è vergognata del suo Inno, e poi perché – quando è stato il momento – hanno trovato più comodo imparare l’inno ufficiale della categoria, il ben noto Soldi soldi soldi firmato da Garinei & Giovannini. I quali – da grandi appassionati del calcio vero – non avrebbero mai pensato di accompagnare con quella musichetta la resistibile ascesa e l’inevitabile decadenza degli Eroi degli stadi. I Padroni del Vapore e i ricchi scemi stanno vincendo. Ma come diceva il Candido guareschiano, “no pasaran”. Lo giuro.

14 marzo 2003

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