Italia, radiografia di una crisi
di Massimo Lo Cicero

Luigi Bersani ed Antonio D’Amato dialogano dalle colonne de Il Sole 24 ore sul futuro dell’economia italiana. Sullo sfondo incombe l’ombra di Giulio Tremonti, del quale si dice sia stato convertito al colbertismo, vittima delle suggestioni evocate da Giuliano Amato. Sul tavolo, intorno al quale si discute, c’è il corpo vivisezionato dell’economia e della società italiane nella seconda metà del Ventesimo secolo. Si discute del domani a partire da un passato complesso e da un presente difficile: fioccano, necessariamente, giudizi sintetici che sottendono valutazioni storiche. Ma gli anni considerati non sono pochi e, forse, nei giudizi di entrambi i partecipanti al dialogo si rischia di sovrapporre cose che andrebbero tenute distinte o di utilizzare metafore che meglio sarebbe stato riservare ad altro.

Le parole sono simboli evocativi e può capitare che esse siano così affascinanti da trascinare fuori strada - rispetto alle sue stesse tesi - chi le utilizza. Infine, ma non è meno importante, questo triangolo D’Amato, Tremonti, Bersani si era già visto - nell’imponente sede di Confindustria - quando i tre si confrontarono in una tempestiva e puntuale riunione: convocata dagli industriali per discutere il futuro mondiale ad un anno dall’undici di settembre del 2001. Anche questa volta i temi del confronto sono stati dettati da Antonio D’Amato, con una intervista al quotidiano milanese, in cui la morte di Gianni Agnelli diventa la metafora della scomparsa di un capitalismo che per vivere aveva bisogno delle stampelle dello Stato.

Nella medesima intervista l’economia italiana appare esuberante di talenti imprenditoriali, mortificati da uno Stato - che è, al tempo stesso, un regolatore ed un attore invadente - e da un sindacato non meno invadente per tutele richieste ed ottenute, e per concertazioni che si risolvono in una liturgia slegata dai risultati che dovrebbero generare. Ne risulta diminuita, nel giudizio sociale e nelle dimensioni operative, la moderna istituzione che consente l’ordinato funzionamento dell’economia di mercato: l’impresa.

Nascosta nei “cespugli”, considerata una “vacca da mungere” o una “tigre da abbattere”. Insomma, per Antonio D’Amato in Italia esiste una straordinaria vitalità imprenditoriale perché si può vedere un flusso continuo di scommesse individuali contro il futuro incerto ed imprevedibile del mercato mondiale. Ma, nello stesso tempo, l’Italia paga, paradossalmente, lo scotto di una politica che ha sempre dovuto salvare l’economia nazionale offrendo la sponda della finanza pubblica alla gracilità intrinseca di grandi imprese e grandi banche. Uno scotto che si è tradotto in un debito pubblico imponente e condiziona il futuro perché impedisce - ancor più che in Europa - la scommessa della crescita. L’Italia non si può davvero permettere - mentre ne avrebbe assoluto bisogno - una spesa pubblica che, generando infrastrutture e capitale fisso sociale, alimenti la crescita ed offra una prateria dove il flusso incessante delle mille scommesse imprenditoriali possa trovare gli spazi necessari per radicarsi e crescere: dando al paese strutture organizzative industriali e bancarie all’altezza delle sue ambizioni.

Certo è molto strano che nel settimo paese del mondo per reddito prodotto, le tre più grandi banche non siano nella lista delle prime venticinque banche europee. Certo è singolare che la più grande, e famosa, impresa italiana - la Fiat - versi in una profonda crisi e che siano scomparse dall’economia nazionale la grande impresa siderurgica, la chimica di base o le produzioni di macchine per ufficio e di personal computers. D’Amato trova le radici di questo nanismo organizzativo nella nascita di una relazione corporatista tra politica, sindacalismo ed istituzioni: una vera e propria degenerazione della concertazione sociale. L’Italia, nella rappresentazione del presidente di Confindustria, è andata avanti, molto più della Francia, nel processo di privatizzazione della propria economia ma non è ancora un mercato competitivo.

L’Italia ha cercato di uscire dagli schemi del capitalismo renano ma le sue banche sono rimaste impigliate, ancora una volta, nella crisi delle grandi imprese industriali mentre le imprese familiari - che sono la ricchezza e la specificità del nostro paese - restano in mezzo ad un guado pericoloso. Da una parte la presenza e l’impegno della famiglia offrono all’impresa una prospettiva di lungo periodo, una base di tenacia e solidità ed un impegno del gruppo dirigente che si traduce in una vera e propria missione. Ma questi medesimi caratteri si ribaltano, necessariamente, nella paura ossessiva di perdere il controllo della creatura generata ed impediscono all’impresa di diventare una vera “istituzione”: una entità capace di esistere indipendentemente dalla presenza e dalle energie del suo fondatore.

Dicevamo prima del rischio di deragliare quando le parole ti prendono la mano. D’Amato, ad esempio, cita come tutori dello statalismo italiano Stringher, Beneduce e Cuccia. Ci permettiamo di dire che tutti e tre, al contrario, andrebbero inseriti nell’elenco di coloro che hanno tenuto aperto l’ossigeno alle grandi imprese italiane nonostante le dichiarate tendenze statalizzatrici dei governi con cui dovettero convivere. L’Iri di Beneduce è l’unica scuola di grande impresa che ha avuto l’Italia e Cuccia ha difeso l’impresa privata dal rischio di estinzione. A ruoli ribaltati Bersani afferma che “la politica deve saper guardare avanti. Così e solo così potrà dare il suo contributo perché in Italia si affermi un capitalismo forte. Insomma, una missione grande come quella di Colbert ma in modo diverso da Colbert”. Questa presa di distanza rispetto ad un grand comis dello Stato francese, che ha reso forte l’economia del suo paese, ma che con il capitalismo aveva poco da dividere, è assolutamente singolare da parte di un socialista. Ed infatti, quando nel mondo si è affermata l’economia di mercato, il Regno Unito e gli Stati Uniti hanno staccato la Francia di molte lunghezze: grazie alle loro imprese, cresciute e diventate forti, proprio perché lontane da Colbert e dalla sua politica.

Il punto che rimane irrisolto, nel dialogo tra Bersani e D’Amato, è il giudizio sulla differenza relativa tra capitalismo renano e capitalismo americano. Che, per dirla con la pericolosa sintesi del giornalismo, è una sola: nel capitalismo renano l’impresa è lo snodo di un complesso di interessi sociali contrapposti, che devono in essa trovare una sintesi ragionevole. L’impresa produce ed i suoi dirigenti ne ridistribuiscono i frutti all’intera platea degli stakeholders. Nel capitalismo americano chi dirige l’impresa deve creare valore per gli azionisti: gli shareholders. Mentre lo Stato garantisce la tutela della proprietà e degli scambi e mantiene l’ordine, sul piano interno e, quando serve, anche su quello internazionale.

Colbert o l’impero austroungarico, piuttosto che la monarchia prussiana sono le manifestazioni di una politica che tracima ben oltre il perimetro del pensiero liberale e che riduce, sempre ed oggettivamente, lo spazio del mercato. Cosa che non accade nel capitalismo americano dove, tra l’altro, lo Stato non ha il monopolio della produzione dei beni pubblici come avviene nel caso renano. La storia italiana è tanto particolare, ed il nostro presente è tanto gravato di debito anche per un’altra ragione: perché al modello burocratico francese ed al paternalismo asburgico si sono aggiunte le lenti di un cattolicesimo pauperista e di un radicale anticapitalismo da parte del maggior partito operaio. Il quale tuttavia, sotto la guida intelligente di Togliatti, seppe rispettare sempre una linea di confine: la tutela della democrazia parlamentare. Ma anche Gianni Agnelli firmò con i sindacati l’accordo sul punto unico di contingenza della scala mobile: avendo chiaro il senso di un accordo che era il danno minore. Perché emarginava le frange più ideologicamente anticapitaliste del nostro sistema sociale.

La storia ci insegna che esiste sempre un compromesso possibile ma anche che esso non è mai ripetibile: non ci si bagna mai due volte nello stesso fiume. E parlare del passato per spiegare il futuro auspicabile può essere la fonte di un ulteriore problema e non la strada per trovare la soluzione di casi difficili come quelli in cui ci tocca di vivere.

28 febbraio 2003

maloci@tin.it

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