Globalizzazione e politica industriale
di Fernando Napolitano

Il passaggio di secolo si è caratterizzato per una serie di eventi davvero straordinari, permanenti e transitori allo stesso tempo. La somma delle due caratteristiche pone però nuove sfide ai Paesi leader e anche l’Italia dovrà adattarsi rapidamente. La sommatoria e il mixage di questi eventi ha, del resto, mutuato profondamente lo scenario geo-politico e industriale di riferimento. Scorriamoli rapidamente. L’11 settembre 2001 la tragedia e la guerra hanno sfidato e incrinato il processo di globalizzazione. Il successo nell’introduzione dell’euro ha segnato una tappa centrale per la costruzione europea, anche se il ruolo dell’Europa e dei suoi membri, i cosiddetti “part-petitor”, resta ancora da chiarire. Il fallimento Enron ha scatenato il panico e determinato sempre minore fiducia nelle pratiche delle corporations. La recessione globale e una serie di scenari economici incerti non fanno ancora intravvedere la fine del tunnel. Mentre la bolla tecnologica Internet ha messo in ginocchio un’industria trainante, l’instabilità politica in alcune regioni rischia di minare la “Consumer confidence”. 

La struttura del “nuovo mondo” che abbiamo ereditato dalla fine del Secondo millennio e che si affaccia al Terzo richiede, insomma, un generoso, poderoso e rapido ritorno della politica, quella con la “p” maiuscola. Oggi il mondo è in presenza di un potere militare unipolare: gli Stati Uniti d’America sono, di fatto, l’unica potenza con armi nucleari intercontinentali, Forze armate di terra, navali e aree con capacità di rapido dispiegamento globale. Il potere economico è, però, quantomeno multilaterale: gli Stati Uniti, l’Europa e il Giappone rappresentano i due terzi della produzione globale. La Cina, potenzialmente è la quarta potenza. Il potere delle transazioni è inarrestabile, transnazionale e indomabile: sfugge al controllo dei governi. E si tratta di un arcipelago o poligono irregolare e dinamico che va dal trasferimento elettronico di fondi sino al terrorismo. 

Se da una parte questo scenario ha colto tutti di sorpresa, dall’altra il secolo che è terminato, è stato, specie dopo la seconda guerra mondiale, tutt’altro che pacifico. Dal 1946 al 2000 si sono verificati ben 262 conflitti armati: 202 tra governi e gruppi interni, 41 tra Stati, 19 extra-sistemici tra uno Stato e un non-Stato al di là dei propri confini. Certo, l’economia è cresciuta specie negli ultimi dieci anni di aumento della produttività: in particolare l’economia Usa, senza precedenti. Il grafico che qui riportiamo illustra come il Price earning ratio sia aumentato in maniera smisurata, ben oltre quell’euforia che aveva preceduto i periodi prima della grande crisi del 1929. Le implicazioni di questa bolla le abbiamo vissute con il crollo dei titoli tecnologici e del Nasdaq e con la tenuta di alcuni titoli tradizionali. Se avessimo investito un euro nella Johnson & Johnson, oggi avremmo rivalutato quell’investimento di circa il 30 per cento. Avremmo, di contro, perso circa 70 centesimi su quell’euro se avessimo comperato il mitico Titolo Amazon.

Cosa ci riserva, da questo punto di vista, il prossimo futuro? All’inizio del 2001, prima del tragico 11 settembre, si parlava di hard o soft landing dell’economia Usa. In verità, l’atterraggio è stato più che brusco e ben precedente ai fatti dell’11 settembre. Certo, la tragedia ha particolarmente colpito la travel industry e ha precipitato il mondo nell’incertezza: la peggiore nemica della crescita. La statitistica ci conforta, comunque, e ci spinge ad essere ottimisti. Dal dopoguerra in poi l’economia Usa è stata nove volte in recessione. Le crisi recessive hanno avuto una durata minima di 6 mesi nel 1980 e massima di 16 nel periodo ’73-’75 e ’81-’82. Possiamo quindi dire che oggi stiamo di fatto nella parte alta della forchetta di oscillazione e quindi il 2003, caeteris paribus, potrebbe esserci una ripresa. L’Italia però, con l’Europa deve fare la sua parte. E' fuori da ogni ragionevole dubbio che la nostra economia, per una serie di motivi che vedremo, ha prodotto micro-imprese e perso le medie e le grandi dimensioni. Benché l’Italia sia stata osannata da M. Porter con la definizione altisonante di industrial district assurti a best practice, l’evidenza dei dati ci suggerisce che questo modello non è percorribile nel lungo termine. Per di più, nel periodo di grande crescita economica che si è appena concluso, la produttività dell’Italia è rimasta al palo: di fatto non è cresciuta. In un benchmarking internazionale sulle dimensioni che influenzano la crescita del multifactor of productivity (aumento dell’utilizzo dell’information technology, barriere all’entrata, rigidità del mercato del lavoro), l’Italia realizza sempre il punteggio più basso. Dal 1970 ad oggi l’Italia ha più che raddoppiato la sostituzione del lavoro con le macchine (K/L). Facendo 100 il 1970, gli Usa sono sempre in sostituzione di macchine con lavoro a 130; il Regno Unito a 150; l’Italia a 210!

Non deve quindi meravigliare se negli investimenti diretti esteri in entrata (Fdi) che nel 1999 hanno toccato 865 miliardi di dollari Usa da 473 miliardi di dollari nel ‘97, l’Italia ne ha catturato il solo 0,6 per cento. E' quindi chiaro che non siamo abbasanza “attraenti”. Di contro, Francia e Germania hanno un quota del 4,5 per cento e del 9,5 per cento rispettivamente. Le proiezioni al 2006 non sono migliori e confermano il trend. E' quindi necessario il ritorno della politica e della politica industriale di programmazione per quei grandi assets che sono ancora in mano pubblica e devono essere sì valorizzati, ma non per le transazioni economiche da Opa, bensì per creare valore per il paese. Senza la politica si può, nel migliore dei casi, raggiungere solo il primo obiettivo.

In questi anni di privatizzazione e di grande supremazia del mercato, che si pensava potesse risolvere tutto, siamo stati in realtà più preda che predatori, come dimostra il nostro modesto livello di presenza industriale dei paesi G7 e cioè quelli con tassi di consumo e ricchezza paragonabili al nostro. E quindi non esposti a casi di insolvenza. Senza la politica è stato, è e sarà sempre difficile ottenere reciprocità nei paesi G7. E' tempo quindi di una politica estera non scissa dalle priorità domestiche. E' arrivato quindi il tempo di una leadership coraggiosa, che sappia valorizzare gli assets, che rimangono a disposizione con una serie precisa di obiettivi: segnare una visione e una strada di crescita all’industria, realizzare quelle riforme strutturali (pensioni, mercato del lavoro, tasse, controllo della criminalità e del territorio) che ci rendono un paese ostile e non attraente per gli investimenti. Esistono, del resto, una serie di opzioni e di azioni nel breve. Per quanto riguarda la politica industriale, occorre puntare sulla costruzione di un sistema-paese teso a supportare le grandi aziende nella realizzazione delle loro strategie internazionali. Sul piano della ricerca e sviluppo si tratta di puntare sulla cooperazione con paesi leader. Il sistema educativo ci impone il rimpatrio dei cervelli. Senza trascurare la reciprocità con i paesi industrializzati nei settori chiave: energia, telecomunicazioni, difesa/elettronica. Non da ultimo, l’obiettivo centrale di saper attrarre investimenti stranieri. Solo alla luce della consapevolezza di questi obiettivi potemmo cominciare un cammino di crescita e consolidamento per riattivare i circuiti virtuosi del sapere, solamente i quali portano alla ricchezza per un paese come il nostro.

14 febbraio 2003

(da Ideazione 6-2002, novembre-dicembre)

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