Mezzogiorno, le banche non rischiano più 
di Massimo Lo Cicero

Il dipartimento per le Politiche di Sviluppo, del ministero dell’Economia, ha elaborato il quinto rapporto sulla situazione economica e sociale del Mezzogiorno. In occasione della presentazione del rapporto Gianfranco Miccichè ha aperto una robusta polemica sulla funzione del sistema bancario meridionale e sulla loro incapacità di offrire servizi finanziari adeguati alle esigenze delle imprese meridionali. Cerchiamo di capire quale sia la situazione del mercato del credito nelle regioni deboli del paese e cerchiamo di capire cosa fanno le banche e come potrebbero fare meglio. Raccomandiamo questo atteggiamento in materia di politica economica perché è sempre meglio partire dalla situazione esistente per cercare di migliorarla piuttosto che descrivere il mondo che vorremmo senza sapere dove ci troviamo: e, di conseguenza, senza sapere quale possa essere il tragitto capace di collegare un punto sconosciuto, il presente, con un punto auspicato e forse introvabile, il futuro. 

Il Mezzogiorno è cresciuto poco negli anni Novanta ma un pochino più velocemente – nell’ordine di decimi di percentuale – rispetto alle regioni settentrionali. Si potrebbe malignamente affermare che andava già piano e, dunque, non ha scontato il rallentamento subito dall’economia del Centro-Nord. In questa lenta economia, poco aperta agli scambi internazionali ed agli investimenti dall’estero, è difficile crescere per le imprese. Nascono e muoiono molte imprese ogni anno ma nessun impresa diventa media, da piccola che era, oppure grande. Le grandi imprese e le grandi istituzioni finanziarie del Mezzogiorno, invece, negli anni Novanta sono state scalate e smembrate, od accorpate per fusione, con gli scalatori. Erano giganti dai piedi di argilla e non hanno avuto la forza di superare una lunga stagione deflattiva. Le banche meridionali, in particolare, sono tutte scomparse ed ora le loro residue organizzazioni compaiono come filiali o succursali di banche settentrionali. 

Negli anni Novanta è cambiato anche il panorama bancario. Le banche hanno, in una prima fase, smesso di concedere crediti e, sedotte dal boom della Borsa, si sono riconvertite radicalmente verso la gestione dei patrimoni. Parallelamente, seguendo la “moda americana”, hanno progressivamente segmentato la propri attività in termini divisionali: creando strutture ad hoc per il mercato delle imprese e per il mercato delle famiglie. Alcuni hanno creato addirittura società ad hoc: moltiplicando organi amministrativi e collegi sindacali, ma anche le spese generali, nella speranza, ancora da verificare, che questa riorganizzazione moltiplicasse anche i ricavi, almeno in proporzione alla lievitazione dei costi. L’Italia, al Nord come al Sud, tuttavia non ha seguito la strada americana ma, unica in Europa, ha perseverato, nella seconda metà degli anni Novanta e nel debutto del nuovo secolo, nell’inseguire il modello renano: quello in cui le banche finanziano la crescita e la gestione delle imprese. Sta di fatto che, negli ultimi cinque anni – lo ha fatto osservare lo stesso Fazio – hanno ripreso a concedere crediti ed a concentrare questi crediti verso le grandi imprese e l’industria delle telecomunicazioni. Questo mercato renano, condito dalle scalate riuscite - quella alla Telecom - e tentate - quelle alla Fiat - si concentra nel Nord del paese mentre nel Sud, dove dominano le imprese familiari, la divisione tra banche per le imprese e banche per le famiglie appare assai discutibile e certamente poco comprensibile da parte della stessa clientela.

Le imprese del Mezzogiorno vivono, tuttavia, piuttosto di incentivi che di crediti. Anche perché, salvo le dovute eccezioni che confermano la regola, sono piccole in un mercato piccolo e chiuso e, dunque, non hanno grandi opportunità di crescita né straordinarie occasioni di reddito da perseguire. Debole la capacità di reddito e di crescita, debole la capacità di credito: come insegna un buon manuale di tecnica bancaria. Una risposta convenzionale oppone la presenza degli incentivi come il naturale fattore compensativo di questo stato delle cose ma non convince. Perché con questi incentivi guadagnano molto le banche e poco le imprese. Le banche sono pagate per istruire le operazioni senza assumere alcuna responsabilità di merito sui progetti che hanno scrutinato ed, una volta che le imprese siano state sostenute dall'erogazione di fondi pubblici, si ritrovano con un portafoglio crediti più robusto ed una clientela in grado di sostenere meglio il servizio del debito. Viene il sospetto che questi siano incentivi alla stabilità del sistema bancario piuttosto che alla crescita imprenditoriale. Nell’economa meridionale, insomma, le banche dovrebbero capire la natura delle imprese esistenti, aiutare quelle imprese a crescere, sostenere la crescita e, se fosse possibile, allargare l’orizzonte della cultura finanziaria dell’imprenditoria locale. Tutto questo è assai difficile che avvenga se le banche sono solo le filiali operative di cervelli strategici remoti. O se le stesse istruttorie per gli incentivi si svolgono al Mediocredito Lombardo e non nella filiale di Acerra che, sia detto per inciso, è il paese dove si dice sia nato Pulcinella. 

L’impresa di Acerra non ha grandi opportunità di allargare la propria cultura finanziaria se deve realizzare questo obiettivo per corrispondenza. Mentre gli incentivi, cioè nuotare con il salvagente, rappresentano una soluzione che non introduce chi li utilizza alla cultura del rischio ma, piuttosto, alla condizione della pianta allevata nella serra che muore quando viene trapiantata in piena campagna. Miccichè ha alzato il tono delle sue critiche, i giornali lo hanno amplificato e le banche, per bocca del presidente dell’ABI; si sono offese e risentite per tanta aggressività. Ma il problema esiste: per le imprese e per le banche. Perché se le banche non valutano progetti rischiosi, non li finanziano e non guadagnano per averlo fatto e per avere osservato attentamente la realizzazione di quei progetti, non si possono più chiamare banche. Ed i banchieri stessi non potrebbero più essere chiamati, come faceva Schumpeter, gli efori del capitalismo ma si dovrebbero considerare solo come diligenti amministratori di condomini assai floridi.

14 febbraio 2003

maloci@tin.it


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