Stati Uniti, la sfida fiscale di Bush
di Luciano Priori Friggi

Un recente articolo di Krugman, economista emergente statunitense di scuola keynesiana, uscito sul New York Times e ripreso in Italia da Repubblica, è illuminante se si vuol capire che tipo di rapporto intercorre oggi tra economia e politica. Il rapporto tra questi due mondi è stato sempre strettissimo. Lo è diventato tuttavia molto di più a partire da J.M. Keynes. L'economista inglese è riuscito ad imporre alla politica e all'opinione pubblica una visione rovesciata del rapporto politica/economia: fino agli anni Trenta del secolo scorso il ruolo di quest'ultima era assolutamente subordinato alla prima, con Keynes avviene il contrario. Con i keynesiani poi si arriva all'eccesso. Dagli anni Sessanta e fino ai primi anni Ottanta il ruolo dell'economista si amplia in parallelo alla funzione che gli viene assegnata e cioè il "fine tuning" sul ciclo. Ed avviene il disastro: stagnazione, inflazione, esplosione del debito pubblico, ruolo abnorme dello Stato in economia. E’ da tutto questo che nasce la reazione tatcheriana e poi reaganiana. Si afferma una nuova visione dell'economia, meno interventista e più attenta a non ostacolare la libera iniziativa, ritenuta l'unica soluzione per il conseguimento di risultati stabili e "sani" in relazione a obiettivi di sviluppo. Da tutto questo deriva un ridimensionamento del ruolo degli economisti che, soprattutto in quelli di scuola keynesiana, da sempre legati - negli Usa - ai governi democratici e nel resto del mondo (occidentale) a governi di sinistra, ha generato prima sconforto e poi una reazione sempre più scomposta.

L'articolo di Krugman è incentrato sugli stimoli che il presidente americano ha comunicato di voler prendere a favore dell'economia. Tutto il pacchetto, afferma Krugman, "non ha nulla a che vedere con la ricerca della soluzione, essendo il suo unico scopo quello di sfruttarla a fini politici". La critica in particolare colpisce "il fulcro della proposta presentata dall’amministrazione: l’eliminazione definitiva delle imposte sui dividendi" in quanto questa "invece di aiutare i bisognosi è quasi comicamente sbilanciata a favore dei molto, molto ricchi", cioè dell'1% della popolazione. Il cuore dell'argomentazione è che la misura determinerebbe uno sgravio permanente anziché temporaneo. Tuttavia, quando va nel dettaglio, Krugman non può fare a meno di ammettere che "oggi gran parte dei redditi sono assoggettati alla doppia tassazione, nel senso che uno stesso importo viene tassato più di una volta strada facendo...". Invece di approfondire la cosa l'economista conclude chiedendosi "perché mai sembra diventato così urgente assicurare che i dividendi, in particolare, non vengano tassati più di una volta?". La risposta è in fondo all'articolo: l'amministrazione "sta scommettendo evidentemente sul fatto che l’economia si riprenderà da sola e intende utilizzare i presunti incentivi come un’opportunità per ottenere ulteriori tagli fiscali per i ricchi. Ideologia a parte, questi signori si decideranno a capire che il loro mestiere è quello di risolvere i problemi e non di usarli per sé?"

Che dire? Siamo di fronte ad articolo che sembra scritto più da un politico che da un economista. Ed è questa la cosa più grave. Argomenti come "i ricchi e i poveri" in genere fanno parte della terminologia populista e non spiegano nulla. Servono solo soprattutto a strappare consenso a buon mercato. Le cose stanno invece in modo molto diverso. Per combattere l'arretramento dell'economia degli ultimi due anni negli Usa prima è stata giocata la carta della riduzione di tassi ed ora, di fronte a risultati ancora incerti, si tenta la carta della politica fiscale. Da manuale di economia. Gli sgravi fiscali sui dividendi favoriranno inoltre il pagamento degli stessi. Prendiamo il caso di Microsoft. Ha nelle casse 40,5 miliardi di liquidità, che cresce al ritmo di 2 miliardi a trimestre, e non ha mai distribuito dividendi. Dopo l'annuncio delle misure di Bush è arrivato anche di quello di Microsoft che ha comunicato di voler pagare per la prima volta un dividendo. Ed altre aziende si stanno orientando nella stessa direzione. L'obiettivo di Bush è chiaro: riportare gli investitori (a partire dai fondi pensione) in borsa. Obiettivo non facile da conseguire, data la diminuita fiducia, anche per via degli scandali, verso le corporations e per l'accresciuta sensibilità verso il rischio azionario. Oltretutto non è ancora chiaro in che direzione andrà l'economia. Una ripresa rimandata ancora molto in là nel tempo potrebbe innescare interazioni complesse tra struttura del debito e mercati finanziari il cui esito finale sarebbe un forte impatto sulla borsa e quindi di riflesso sull'economia. Non è difficile da capire, a patto di volerlo fare.

31 gennaio 2003

luciano.priorifriggi@tin.it

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