Quando la Fiat “non chiudeva mai”
colloquio tra Vittorio Mathieu e Sergio Ricossa

Vittorio Mathieu – Caro Sergio, penso che sull’argomento Fiat noi due siamo complementari: io ho conosciuto la Fiat dal basso, tu dall’alto, attraverso l’Unione Industriale.

Sergio Ricossa – Sì, all’Unione Industriale di Torino conobbi la Fiat di Valletta da media altezza, se non proprio dall’alto. Ma mio padre era stato operaio al Lingotto, dal 1926, prima, poi a Mirafiori, e a casa raccontava spesso la sua vita nella “galera”. Così i dipendenti chiamavano la Fiat, ma con un pizzico di riverenza. In molti non mancava una punta di orgoglio per appartenere a tale colosso. Ancora oggi nei necrologi de La Stampa i defunti e i loro parenti ci tengono che appaia l’indicazione: “Anziano Fiat”. E a questi funerali partecipano delle guardie Fiat in divisa con la bandiera del gruppo.

Mathieu – Anche io già conoscevo indirettamente la Fiat attraverso mio padre. Lui, ingegnere navale, non trovava lavoro – era il 1929 – e fu assunto alla Fiat Aeronautica come disegnatore. La sera, a volte, riferiva particolari pittoreschi, come quando, anni Quaranta, fu nominato nel CdA il "signorino Giovanni Agnelli". E formulava qualche giudizio che più tardi constatai non avventato. Più che il monopolio nel settore dell’auto – in una città come Torino, che prima contava non poche aziende del ramo – deprecava il ramificarsi della holding nei campi più disparati. In fatto di qualità l’Aeronautica d’Italia era al top, grazie alla genialità dei suoi progettisti. Il CR20 e il CR42 (R significava Rosatelli) erano eccellenti apparecchi da caccia, e il G50 (G significava Gabrielli) fu il primo caccia italiano a reazione. Lo Spitfire lo precedette, ma a volte il CR42 a elica gli teneva testa, grazie alla maggiore manegevolezza. 

A differenza che nell’automobile, ai costi non occorreva badare. Ma sul personale la legge permetteva di realizzare risparmi. I dipendenti Fiat erano molto ricercati (perché si diceva: se uno riesce a lavorare lì lavorerà dapperttutto). Però non potevano accettare altre offerte allettanti, perché nelle industrie belliche vigeva una servitù: non della gleba, ma della... scrivania. Colui che diventerà il mio capo ufficio aveva cercato in tutti i modi di farsi licenziare. Usciva e diceva alla segretaria: "Se qualcuno mi cerca, dica che sono in barca. O al cinematografo". Invano...
Mio padre non si lamentava per ragioni personali, anche perché in meno di dieci anni divenne dirigente e, tra l’altro, di un servizio interessante: il Laboratorio sperimentale. La principale fatica erano le “prove statiche”: caricare il prototipo con sacchetti di sabbia, finché non si rompesse. Comprensibilmente, i collaudatori, erano molto interessati, dovendo poi pilotare un modello che non aveva mai volato. La Fiat aeronautica aveva collaudatori eccellenti, tra cui il leggendario colonnello Rolandi, con più parti del corpo composte di materiali vari, a causa degli atterraggi di fortuna; e, più tardi, l’ingegner Catella, che diverrà presidente della Juventus: era figlio del mio maestro di scuola, che ne vantava l’audacia in bob.

Ricossa – Ma poi c’è stata la tua esperienza “diretta” dentro la Fiat…

Mathieu – Sì, entrai alla Fiat recalcitrando all’indomani dell’8 settembre, costretto da mio padre per evitare l’arruolamento nell’esercito della Repubblica sociale. Poiché non sapevo fare altro, mi misero all’Ufficio Germania, come traduttore e interprete. All’inizio cercavo di arguire che cosa dicesse il tedesco che parlava, poi imparai cinque o seicento termini tecnici e divenni un interprete quasi contemporaneo. Andavo spesso in missione (anche in Alto Adige) con il capoufficio. A Como, a un certo punto, soggiornai. C’erano uffici della Luftwaffe che esaminavano le fatture, e fui distaccato là per sollecitare i pagamenti. Lavoravo un’oretta, poi andavo in biblioteca, a leggere i classici della filosofia. Quando arrivava il mio capoufficio, mandava l’autista a cercarmi. Viaggiavamo in automobile, magari a carbonella, e i brutti incontri erano frequenti: ma la livrea Fiat era rispettata da tutti (repubblichini, partigiani, tedeschi). Capii la teoria del “nuovo feudalesimo”. 

Un giorno vagavamo in sci per l’Alpe di Siusi, e il mio capoufficio disse: "Pensare che ci sono dei fessi che per il nostro stesso stipendio stanno tutto il giorno in ufficio". Pensai a mio padre, chiuso in laboratorio. Una volta mangiavamo insieme e lui mi confidò che qualcuno ambiva al suo posto. Con la crudeltà dei figli, gli dissi che non mi pareva un posto così appetibile e redditizio. "Volendo, però, si può farlo rendere" (sottinteso: "devo approvare quel che mandano i subfornitori"). Non era, purtroppo, una congettura: fu ucciso (con mia madre, ab abundantiam) durante le due settimane (lorde) di ferie. La verità venne a galla solo a conflitto finito. Il mandante, però, non riuscì nel suo intento. Io, dovevo ormai lavorare per vivere, non solo per imboscarmi. Benché non laureato, chiesi il passaggio alla seconda categoria. Riferisco la risposta del caposervizio, perché è tipica: "Ma perché si è fatto mettere in terza categoria?" (come se l’avessi chiesto io). 

La politica aziendale era ormai quella del professor Vittorio Valletta (Giovanni senior soggiornava in collina, alla Sanatrix) e della sua celebre segretaria (“davanti a lei tremava tutta Roma”). Consisteva nel dir di sì a tutti, nell’andare d’accordo con tutti. A loro volta i tedeschi erano accomodanti. L’ufficiale di sorveglianza (quando andava per i fatti suoi) mi firmava in bianco i permessi per il coprifuoco, che davo a chiunque, anche a chi notoriamente apparteneva al Comitato di Liberazione. Ne ho conservato uno, con il timbro metallico della Luftwaffe.

Ricossa –  Io conobbi di persona la Fiat di Valletta un po’ più tardi, a guerra finita, quando l’Unione Industriale mi incaricò di fondare un Ufficio studi economici. Lo feci più avanzato, più moderno di quello Fiat, col quale era collegato. L’Unione Industriale poteva permettersi il lusso di occuparsi di econometria, ricerca operativa, programmazione lineare ecc. Valletta considerava la scienza economica, zeppa di alta matematica, poco utile in pratica e oggi devo confessare che aveva ragione lui. Aderì invece al progetto di Adriano Olivetti di dar vita all’Ipsoa, l’Istituto post universitario per lo studio dell’organizzazione aziendale. Si importarono dall’America docenti pratici del “metodo dei casi”, in cui professori e studenti discutevano “casi” aziendali più o meno realistici. Forse negli Stati Uniti il “metodo dei casi” funzionava. Da noi invece alimentava la verbosità degli studenti italiani, la loro incapacità di parlare uno alla volta e di arrivare a conclusioni. Valletta lasciò vivere l’Ipsoa per qualche anno e compiacere gli americani, poi la storia finì. Valletta era un pragmatico per il quale ogni perdita di tempo era un peccato. L’unica sua debolezza era di sentirsi nell’animo un sincero riformista. Sotto il suo imperio la Fiat divenne “Mamma Fiat”, dura coi figli disubbidienti, sollecita coi figli bisognosi. La mutua Fiat è ricordata ancora oggi come un modello di efficienza a beneficio dei malati. Poi vi erano le colonie e i regali di natale per i figli dei dipendenti, gli incentivi agli studi, i premi. Con Valletta, Torino divenne veramente una company town, anzi un luogo sperimentale per la teoria “dalla culla alla bara” del socialist abritannico Beveridge.

Mathieu – Nell’ultima fase della guerra, comunque, i tedeschi erano molto addomesticabili: a Como da me, con qualche pranzo; nelle alte sfere con argomenti più consistenti. Una volta, di ritorno dal Sudtirolo, poco prima del confine – cioè a Riva del Garda – rompemmo il differenziale. C’era nei pressi un campo di raccolta di veicoli requisiti, comandato da un maresciallo (d’alloggio, non da un colonnello, come sarebbe stato da noi). Il capoufficio mi diede ordine di aiutarci. Avevo qualche timore, ma il maresciallo capì al volo: gli misi 500 lire in un portasigarette, e lui fece smontare da una 1100 un differenziale buono mettendo a posto il nostro guasto. La Fiat doveva per forza barcamenarsi Aveva una quantità di materie prime nascoste, ad esempio di nichelio in sacchetti di monete da 20 centesimi. Ogni tanto veniva scoperta: le minacce di fucilazione finivano a tarallucci e vino. I custodi dei magazzini, di basso grado, vestivano con eleganza: nessuno era in condizione di denunciarli. A un certo punto la Fiat aeronautica, come le sue consorelle, cessò di lavorare, non di essere pagata. Per il mio mestiere tutto passava tra le mie mani; e così fu, in particolare, per l’ordine di montare e poi di smontare un certo numero di apparecchi. 

Ovviamente, nessuna delle due operazioni fu eseguita, ma entrambe furono pagate. Ricordarlo è necessario per spiegare un enorme cartello davanti alla stazione di Torino Porta Nuova: "Contributo della Fiat alla guerra di liberazione". E, sotto, un elenco: autocarri non prodotti tot, vagoni ferroviari non prodotti tot, aerei non prodotti, ecc. Chi non era dell’ambiente non capiva come si potessero calcolare con tanta esattezza oggetti non prodotti, ma io sì. Ero a Como, nei giorni in cui più a Nord, sul lago, accadeva quel che accadde. In città, però, nulla. Uno degli ultimi giorni feci il mio solito giro. Quello che trovai più calmo fu un ufficiale austriaco del genio aeronautico, che era solito raccontare facezie antinaziste. Una volta disse: "Tra poco avremo un’arma che fa scoppiare i polmoni nel raggio di cinquanta chilometri". Tutti a ridere, perché non sapevamo che era quasi vero. Quel giorno era con i suoi dipendenti in giardino, intento a bruciare documenti. Al contrario, un altro, un civile, aveva perso la testa. "Ho mandato la domestica a comprarmi una valigia, e guardi che cosa mi ha portato questa capra (diese Ziege): una borsetta". Mi offrì un assegno di cinque milioni in pagamento di fattura, col patto che gliene restituissi uno in contanti. Andai in banca, ma il conto era bloccato. Poi, a Milano, per due settimane, cercai di depositare l’assegno, ma invano. 

Incredibile il prestigio che, a quel tempo, dava un assegno di cinque milioni (la filiale milanese della Fiat ne aveva uno per 300mila lire). In banca mi domandarono se fossi laureato alla Ca’ Foscari o alla Bocconi e si meravigliarono che non fossi laureato per nulla. Come si diffondono le notizie? Allora come ora la Fiat era oggetto di pettegolezzi. Mi ero congedato da qualche mese, quando il mio ex capoufficio andò a trovare la nostra affittacamere di Como. Si sentì dire: "Che ne è di Mathieu? Sembrava una persona tanto per bene, poi ho saputo che è scappato in Svizzera con i soldi della Fiat!". Naturalmente, avevo consegnato l’assegno in sede, dopo essere tornato a Torino al di sopra di un carico di casse vuote oscillanti su un autocarro.

Ricossa – E come è andata a finire la tua vicenda alla Fiat?

Mathieu – Ad ogni modo, il nostro Ufficio Germania non fu sottoposto a epurazione come quello della Fiat centrale, ma naturalmente assolto. Del funzionario che imprecava contro diese Ziege, a cui avevo mancato di parola, non seppi più nulla. Del professor Valletta, per contro, continuai ad apprezzare lo stile anche dall’esterno. Una volta fu sequestrato in ufficio e non reagì. Un mio collega uscì su un giornale con questa battuta: "Ma che sequestro: semplicemente, non l’hanno lasciato uscire". Sia detto a sua scusa che era un professore di chimica, non di giurisprudenza.

Ricossa – Personalmente confermo che durante il periodo bellico i tedeschi e gli italiani loro alleati furono in fabbrica facilmente addomesticabili. Era impossibile non accorgersi che la produzione per la guerra era trascurata a tutto vantaggio di cose molto più frivole. Per esempio, gli accendisigari di alluminio, che ogni operaio produceva per sé e per gli amici. C’era anche stato il momento nazionalista dell’ “oro alla patria”, quando in teoria si dovevano consegnare alle autorità gli anelli nuziali d’oro in cambio di un anello d’acciaio. La Fiat si specializzò in anelli d’acciaio falsi, che permettevano di non consegnare, se non in apparenza, quelli autentici, d’oro. E anche questo era lo “spirito” della Fiat…
Mathieu – Sì, così lavora la Fiat, come ha sempre lavorato. Come lavorava quando Mussolini scriveva al prefetto di Torino. Il 16 luglio del 1937 il Duce inviava un celebre telegramma: "Comunichi al senatore Agnelli che nei nuovi stabilimenti Fiat devono esserci comodi e decorosi refettori per gli operai / Gli dica che l’operaio che mangia in fretta e furia vicino alla macchina, non è di questo tempo fascista / Aggiunga che l’uomo non è una macchina adibita a un’altra macchina". Sul Giornale Alberto Mazzuca ha citato, dalla biografia di Giovanni Agnelli di Castronovo, una di queste missive: "Se la Fiat ha dei problemi, se li risolva da sola, e non pretenda di collocarsi sullo stesso piano della dinastia o del regime". Oggi, di nuovo, la Fiat ha dei problemi, e ci auguriamo che se li risolva da sola, senza bisogno di farsi pagare le “autovetture non prodotte”. Allora, sono sicuro che si riudirà la canzone che si sentiva cantare durante la crisi degli anni Trenta: "Viva la Fiat, che non si chiude mai".

31 gennaio 2003

(da Ideazione 1-2003, gennaio-febbraio)

stampa l'articolo