Mezzogiorno e imprese: alla fiera dell’Est
di Paolo Passaro

Il processo di globalizzazione dei mercati di sbocco delle merci e di localizzazione degli impianti produttivi non è più riservato agli uffici pianificazione e controllo di grandi aziende multinazionali. La decisione di “delocalizzare” all’estero una parte, o tutto il processo produttivo, è ormai ai primi posti nelle agende di tanti imprenditori medio-piccoli del Sud Est d’Italia. Il fenomeno, già eclatante per le aziende del Nord-Est, che ha visto la creazione di un distretto di oltre 10.000 imprese nell’area di Timisoara in Romania, inizia a divenire comune anche per le imprese pugliesi che si collocano lungo la filiera produttiva del “distretto del salotto”, compresa tra Altamura, Santeramo e Matera (in Basilicata). Il ciclo produttivo del mobile imbottito, così chiamato dagli addetti ai lavori, vede una ripartizione del processo produttivo in molteplici parti: il design e lo studio del modello di salotto; la produzione dei fusti in legno (intelaiature); la produzione dell’imbottito (cuscini); la produzione delle spugne (per la seduta); il taglio e cucito della pelle (o altro tessuto di rivestimento); l’assemblaggio e l’imballo. Seguendo un percorso che si ripete costantemente nell’ambito dell’industria manifatturiera, con il passare del tempo i processi produttivi ad alto contenuto di manodopera vengono spostati all’esterno delle imprese. A tale logica non sfugge il distretto del salotto dove la realizzazione dei fusti e dell’imbottito, e spesso anche il taglio e cucito delle pelli vengono esternalizzati.

Rimangono all’interno dell’impresa le funzioni legate alle strategie commerciali, l’amministrazione, le vendite, gli acquisti e soprattutto il design e la scelta dei nuovi modelli. Una delle caratteristiche principali del distretto del salotto è la rapidità con la quale le informazioni si propagano all’interno della rete di imprese che ne costituisce l’ossatura. Una rete è caratterizzata dalla lunghezza e dalla “portata” (ovvero la quantità di informazioni trasferibili). Di solito quelle lunghe hanno una minore “portata”. Però ci sono reti, anche molto lunghe, con eccellente “portata”. Sono, ad esempio, le reti aziendali interne di aziende multinazionali. La rete di un distretto è una rete esterna alle imprese, nella forma. Nella sostanza è “interna” perché lo scambio di informazioni è così rapido tra gli interlocutori del distretto da rappresentare l’equivalente di una rete aziendale unitaria con alta “portata”. All’interno del distretto viaggiano velocemente le informazioni sui prezzi, sulle condizioni di fornitura, sulla situazione finanziaria di aziende che sono reciprocamente clienti e fornitrici le une delle altre.

Capita così che se un’azienda manifesti difficoltà finanziarie, ritardando i pagamenti, immediatamente la notizia si propaghi, con l’immediata conseguenza che tutte le altre aziende fornitrici si tutelino azzerando il credito. Le prime esperienze positive di delocalizzazione della produzione nei paesi Balcanici (soprattutto Albania e Bulgaria, oltre che Romania) di aziende sub-fornitrici del distretto, ad esempio quelle che producono le intelaiature di legno o di quelle che producono l’involucro dei cuscini che imbottisce il divano (il cosiddetto “cucito”), stanno determinando rapidi processi imitativi da parte dei concorrenti. Infatti, la mancanza di asimmetrie informative tra gli operatori del distretto essendo le informazioni condivise da molti operatori lungo la catena del valore esterna all’impresa, (fornitori, agenti, istituti di credito, consulenti, ecc.), rende immediata la condivisione delle informazioni. E’ facile prevedere, quindi, che nel corso dei prossimi tre anni almeno il 50 % delle aziende sub-fornitrici del distretto, specializzate in produzioni a basso valore aggiunto ed alta intensità di manodopera, emigri verso Est.

Si potrebbero verificare, di conseguenza, per un periodo più o meno lungo delle forti tensioni sociali per un probabile aumento della disoccupazione. Se da un lato il fenomeno della delocalizzazione di produzioni a basso valore aggiunto verso aree più povere a basso costo del lavoro è inevitabile, in un ottica di divisione internazionale del lavoro e di globalizzazione dei mercati, nel caso del distretto pugliese del salotto assume, per me, una connotazione negativa. In primo luogo, la delocalizzazione diviene solo un fenomeno imitativo delle scelte della concorrenza, in un mercato altamente competitivo sul fattore prezzo. In pratica, si cerca di mantenere la competitività di breve periodo attraverso il “dumping sociale” derivante dal costo della manodopera che, nei paesi dell’ex blocco sovietico, è più basso di oltre 8 volte. Non si agisce, perciò, in profondità, sulle discrasie derivanti da una bassa efficienza aziendale; semplicemente si sposta il problema per un periodo più o meno lungo.

In sostanza, si sostituisce al “dumping sociale” interno (lavoro nero) quello estero; pattinando sulle differenze di potere d’acquisto tra l’Italia e nazioni poverissime dove lo stipendio di un operaio, pari ad un decimo di quello dell’omologo italiano, è più che sufficiente per vivere. In secondo luogo, la delocalizzazione delle produzioni a basso valore aggiunto sposta le produzioni all’estero senza sostituirle, nel Sud d’Italia, con altre a più elevato tasso di tecnologia e di innovazione. Il Sud-Est di Italia continuerà a fabbricare salotti in pelle, tradizionali, che nel giro di pochi anni saranno comunque soggetti alla concorrenza spietata di nuovi “players” globali come la Cina o l’India. Agire sul fattore prezzo è, perciò, una mossa perdente nel medio periodo. Una reazione più sistematica ed efficace sarebbe quella, al contrario, di agire sui fattori non di prezzo ovvero sul marketing, sul design, sulla qualità, sulla rete di vendita. Le aziende più grandi (Natuzzi, ad esempio) hanno già intrapreso questa strada. Sarebbe, a mio avviso, necessario costituire dei Consorzi di Filiera, agguerriti, con i quali imporre sui mercati internazionali un marchio riconosciuto di provenienza e con il quale interagire da posizioni di forza con i buyer delle grandi catene di distribuzione e vendita Europee ed Americane.

La parola d’ordine è: l’unione fa la forza. Andare oltre l’individualistico egoismo e la gretta soddisfazione di superare “il vicino di capannone” in una corsa verso il baratro. Al contrario mettere insieme, a fattor comune, competenze, idee ed innovazione tecnologica. Tutto ciò può finalmente realizzare uno sviluppo endogeno autopropulsivo e duraturo. Probabilmente gli imprenditori, presi singolarmente, non riescono a vedere i vantaggi dell’associazionismo. Ci vorrebbe un’iniziativa forte della Regione Puglia per incentivare i Consorzi, nella sua naturale qualità di arbitro e regolatore delle scelte di mercato. Sarebbe un tentativo, serio, di impostare una politica industriale; non calata dall’alto ma vicina alle necessità del territorio. Un vero federalismo: senza slogan, efficace e solidale.

17 gennaio 2003

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