Politica economica: più tattica che strategia
di Andrea Gumina


Dispiace dirlo, ma la sensazione che si trae osservando la politica economica di queste settimane – e le critiche ad essa formulate dall’opposizione – è che la nostra classe politica sia molto preoccupata della tattica e assai poco della strategia. Il momento è decisamente difficile, ed è inutile negarlo. La situazione cui siamo giunti è il frutto di una componente esogena (prevalente) ed una endogena. In poche parole, è l’Europa che vive una situazione di scarsa competitività e di scarsa spinta ad innovare, causata da un perverso gioco di diritti acquisiti, rigidità, tentativi di cambiamento, blocco delle scelte. In generale, è come se l’insieme delle richieste di risorse pubbliche disponibili che provengono da coloro che fanno parte del sistema produttivo (i cosiddetti insider) – siano esse di natura economico-finanziaria, infrastrutturale, burocratico-legislativa – superasse di gran lunga non già le risorse ad essi destinabili, ma la somma di queste e di quelle cui avrebbero diritto gli outsider – cioè di chi è fuori dal sistema produttivo. Il sistema, alla lunga, non poteva reggersi così, lo sapeva bene chi lo aveva immaginato. Di più, questo sistema diverrà sempre più iniquo dal punto di vista intergenerazionale, costringendo chi verrà a pagare in misura sempre crescente quanto “acquisito” da chi già c’è.

Quello che in questa situazione dovrebbe far riflettere è come le parti sociali, e per primi i sindacati, non stiano minimamente riflettendo sui destini del paese: fa loro eco, purtroppo, una classe politica in massima parte alla ricerca di consenso più che di soluzioni efficaci e di lungo periodo. Così, se depuriamo la nostra politica economica (e le “controproposte” della minoranza) del contingente (Fiat, pensioni, concordato fiscale, decimali del deficit), resta ben poco in termini strategici. E’ rimasto solo il presidente della Repubblica a soffermarsi, quasi laconicamente, sul tema più importante per il paese: il recupero di competitività. Ma quali sono i temi che dovrebbero essere al centro del dibattito di politica economica e su si giocherà gran parte del futuro dell’Italia?

In primo luogo nel nostro paese esiste troppa burocrazia. Nonostante gli sforzi sin qui perpetrati per disboscare la giungla di disposizioni, autorizzazioni, licenze, limiti e divieti che infestano la vita di ogni cittadino (di qualsiasi stato sociale e occupazione), ben pochi sono i risultati che si registrano. Così, si rimane sbalorditi leggendo le dichiarazioni di Michelle d’Auray, responsabile dell’e-Government per il Canada, che promette di “abbattere” il tempo di registrazione di una società dalle attuali 6 ore a 15 minuti, o di consentire ai cittadini di ottenere rimborsi dal fisco non già nel giro di qualche mese ma di due o tre giorni. In Italia, in realtà, è già un bel risultato capire chi si occupa di cosa all’interno della Pubblica Amministrazione.

Ma passiamo al secondo tema: in Italia si spende poco e male per il sistema della ricerca e della formazione. Non è una sterile polemica quella del ministro Moratti: diminuire le risorse a disposizione di questi due settori non è in qualunque caso accettabile. E’ questo il dramma di uno stato (con la “s” minuscola) assistenzialista e non previdente: aver confuso la distribuzione di scarsi benefici a pioggia con le vere esigenze dei più deboli. Chi non è in malafede, invece, deve ammettere che un paese come il nostro trarrebbe giovamento più dalla capacità di competere con le sue risorse immateriali (i cervelli), che dalla diffusione delle pensioni d’anzianità. Così, forse, sarebbe il caso di pensare ad una redistribuzione delle risorse pubbliche presenti, che premiasse la ricerca e la formazione “produttive e finalizzate” (niente incentivi alla ricerca “per diletto”), e che consentisse ai privati di finanziare, attraverso forti vantaggi fiscali, le iniziative e le Istituzioni più avanzate.

Terzo tema: la scarsa sussidiarietà. Si continua a far un gran parlare di devolution e di decentramento amministrativo, paventando addirittura la dissoluzione del paese. Che problemi ci siano, e che possano nascere da riforme affrettate e, talora, con poco senso (chi può mai trarre vantaggio da una polizia locale?), è un dato di fatto. Ma che avvicinare il livello delle responsabilità politiche sempre più al cittadino – rendendo “identificabili”, nel bene e nel male, gli ideatori e gli esecutori di certi interventi – sia l’unico modo per rendere trasparenti le dinamiche di governo è un principio incontestabile. Si può contestare, invece, l’animo con cui alcuni interpretano la “devoluzione” dei poteri – vedendola più come un modo per scaricare le responsabilità che come un’incisiva azione a favore dei cittadini. Non può esserci decentramento non solidaristico. Come pure, non può esserci sussidiarietà verticale e orizzontale senza quella tra pubblico e privato: deve crollare il tabù che, ove quest’ultimo sia più efficiente, non possa occuparsi – sotto regolamentazione – delle cose pubbliche.

Ancora da risolvere il problema Sud. Per il Mezzogiorno manca ancora una strategia di ampio respiro. E non è, o almeno è solo in parte, una questione di utilizzo dei Fondi Strutturali o del credito d’imposta. Non c’è più, a livello di paese, l’idea che investire nel Sud, rendere effettivi i vantaggi di localizzazione, imporre alle amministrazioni locali il buon governo e l’attenzione nei confronti del ceto produttivo, rappresenti il modo per ridare slancio all’economia italiana. Oggi si guarda alle nostre aree depresse più come “una palla al piede” per il sistema, che come l’unica macroregione con una crescita potenziale ben al di sopra di quella effettiva: un cambio di marcia è indispensabile per uscire dalle pastoie attuali.

Infine, il sistema creditizio. E’ un discorso che, in parte, si ricollega al problema Sud, in parte riguarda l’approccio generale che le banche hanno verso lo sviluppo del paese. Nell’ultimo decennio, gli interventi sul sistema creditizio sono stati – a torto o a ragione – finalizzati specialmente all’ottenimento di un più elevato livello di competitività sulla scena dei global player e di una più marcata efficienza. E’ mancata – e tuttora in larga parte manca – una cultura dell’intermediazione finanziaria finalizzata allo sviluppo reale: è ora, invece, che gli istituti di credito guardino meno alle garanzie e più all’idea di business, e che inizino a fare la loro parte nel finanziamento e nel supporto della piccola e media imprenditoria, specie nelle aree più svantaggiate.

Dopo quasi due anni di legislatura, è il caso quindi che il Governo ponga nuovamente al centro della sua agenda i grandi problemi del paese. Su questo, tutti – sindacati e opposizioni in prima fila – dovrebbero concentrarsi con grande lealtà e serenità: questa volta, ci si gioca più di un pugno di voti.

6 dicembre 2002

a.gumina@libero.it

 

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