Mezzogiorno. Un connubio virtuoso fra politici e burocrati
di Gualtiero Gualtieri

Da alcuni anni le analisi economiche segnalano un notevole dinamismo del sistema produttivo in alcune aree del Mezzogiorno d'Italia, fra le quali soprattutto la Puglia. Un dinamismo che si suole individuare principalmente (ma non solo) nel sensibile tasso di natalità delle imprese. Tale fenomeno non va sottovalutato perché dimostra che in queste aree la dipendenza dell'economia dall'intervento della finanza pubblica è ormai una realtà in via di superamento, che lo sviluppo eterodiretto non è più (o si avvia a non essere più) nell'aspettativa della classe imprenditoriale e del ceto produttivo in genere; in una parola dimostra che in quelle aree si stanno facendo strada lentamente nel ceto più evoluto e impegnato ai vari livelli una cultura della responsabilità ed una consapevolezza delle proprie possibilità e capacità, che costituiscono l'humus dello sviluppo endogeno ed autopropulsivo.

Sarebbe un errore però lasciarsi prendere dall'ottimismo e pensare che il peggio è passato e che, forte di questo dinamismo, il Sud ce la farà e che ormai è solo questione di tempo. In realtà permangono, e in parte si sono addirittura andate aggravando in quest'ultimo decennio, alcune debolezze strutturali del tessuto produttivo delle regioni meridionali, anche in quelle aree in cui viene costantemente segnalato (e spesso troppo enfatizzato) il cosiddetto saldo attivo di nati-mortalità delle imprese. Tali debolezze sono destinate ad incidere negativamente sempre di più sui tassi di crescita economica e civile delle regioni meridionali a causa del sopravvenire di alcune importanti novità nello scenario generale di riferimento, quali l'ingresso dell'Italia nella moneta unica europea, che ha azzerato il vantaggio competitivo costituito dalla debolezza della vecchia divisa nazionale, che per anni ha giocato favorevolmente sull'export delle nostre aziende, la progressiva globalizzazione dei mercati, l'emergere (soprattutto nell'Europa dell'Est, ma non solo) di aree più competitive, in grado di intercettare la tendenza alla delocalizzazione di molte attività produttive tradizionali.

La strategia di attacco ai ritardi del sistema produttivo del Mezzogiorno deve mirare in maniera selettiva e massiccia a colpire e neutralizzare nel tempo tutti i punti di debolezza. Il raggiungimento di tale obiettivo compete istituzionalmente al complesso e articolato sistema degli incentivi alle aree depresse, che ha sostituito, a partire dagli anni 1988-1992, il vecchio sistema dell'intervento straordinario nel Mezzogiorno, incentrato sulla Cassa per il Mezzogiorno. Con l'avvento del Governo Berlusconi e soprattutto con il sopravvenire della fase recessiva dell'economia mondiale - tutt'ora in corso - conseguente alla crisi internazionale iniziata con gli atti terroristici dell'11 settembre 2001, si è aperta una fase di rimeditazione della politica degli incentivi. Tale ripensamento ha subito un'accelerazione negli ultimi tempi soprattutto a causa della difficoltà di tenere sotto controllo la spesa pubblica corrente, onde rispettare i parametri del patto di stabilità a cui l'Italia è vincolata, nonché a causa dell'esigenza di ottimizzare le risorse disponibili, evitando che alcune azioni esauriscano la copertura finanziaria loro assegnata e contemporaneamente altre accumulino residui non spesi.

In questa fase, difficile e contrastata, nella maggioranza e nello stesso governo sono sorte aspre polemiche sugli indirizzi da imprimere al nuovo corso (è nota la polemica fra il ministro Antonio Marzano e il vice ministro Gianfranco Miccichè sul cosiddetto "Fondo Unico" degli incentivi al Mezzogiorno), polemiche che dimostrano come manchi un progetto coerente di riforma e ammodernamento del sistema e che il dibattito in tema di incentivi e di sviluppo, lungi dall'essere approdato a conclusioni chiare e a decisioni univoche, abbia ancora bisogno di apporti di pensiero e di proposte.

Appare evidente l'esigenza che una politica innovativa di sostegno del Mezzogiorno si caratterizzi per la maggiore finalizzazione delle risorse pubbliche ai problemi strutturali del sistema produttivo delle aree sottoutilizzate del Sud. Accanto agli strumenti agevolativi orientati all'allargamento della base produttiva e all'incremento occupazionale, tutti da rimodulare, la riforma dovrebbe portare in primo piano, e finanziare in misura più consistente, gli strumenti della programmazione negoziata e le misure volte a sostenere i progetti di filiera, lasciando un ruolo marginale e vigenza transitoria ai cosiddetti incentivi automatici. E' la programmazione negoziata infatti la strada più congeniale per sanare anomalie che hanno valenza strutturale, partendo dall'iniziativa degli stessi attori dello sviluppo locale. E' ovvio che il successo di questa linea dipenderà soprattutto dal modo in cui gli strumenti operativi saranno gestiti. Proprio alle modalità di gestione e ai tempi di attuazione, infatti, è in gran parte ascrivibile il sostanziale insuccesso dei principali strumenti della programmazione negoziata.

La polemica dei partiti dell'attuale maggioranza contro i governi di centro-sinistra ascriveva questo insuccesso al fallimento della così detta politica dei "patti", a cui si intendeva contrapporre quella dei "fatti". L'obiezione coglieva probabilmente nel segno, dal momento che anche osservatori neutrali avevano rilevato l'eccesso di burocrazia nelle procedure e l'assenza di criteri selettivi ispirati a logiche industriali. Il quadro normativo, dunque, dovrà essere attentamente rivisitato con l'obiettivo di semplificare e accelerare le procedure e di restituire alle istruttorie la capacità di portare in primo piano la logica industriale delle iniziative piuttosto che quella meramente concertativa e politica. La polemica contro i "patti" dovrà condurre le forze dell'attuale maggioranza di governo ad un'attenta azione di riforma degli strumenti della programmazione negoziata, in chiave di efficienza, selettività e, in ultima analisi, di effettiva capacità di produrre "fatti".

Alla classe politica si richiede, parallelamente all'impegno programmatorio necessario nella fase di indirizzo della riforma, la capacità di precludersi ogni ingerenza nel momento della gestione degli strumenti messi in campo. La fase gestionale deve essere affidata a nuclei di esperti il cui ruolo non dovrebbe essere solo di valutare e giudicare i progetti, ma anche di confrontarsi con i soggetti interessati, con gli attori dello sviluppo locale, con gli istituti di credito, quindi con le realtà economiche, sociali e istituzionali coinvolte nelle iniziative poste in cantiere. In altre nazioni d'Europa (Galles, Irlanda, Spagna) il connubio fra classe politica e staff tecnico-amministrativi, ha prodotto per un verso politiche lungimiranti e incisive e per altro verso gestioni attente ed imparziali delle azioni di sviluppo, portando così intere regioni a raggiungere trend di crescita inimmaginabili. Anche il Mezzogiorno può fare questo "miracolo".

8 novembre 2002
 

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