Italia, se la concertazione è monca
di Andrea Gumina

Nell’affannosa ricerca di una soluzione che salvaguardi crescita del sistema e sostenibilità dei conti pubblici, in Italia ma anche in Europa, sarà il caso di far chiarezza su un paio di concetti riguardanti i cosiddetti “patti per lo sviluppo”. Alla base di un “patto”, ancor più ove rivesta carattere di istituzionalità e comporti riflessi così marcati sulla vita di un sistema economico, c’è generalmente la condivisione di una serie di obiettivi. Massimamente, come nel caso del “Patto per l’Italia”, dovrebbe esservi l’idea di superare le visioni di parte, per promuovere congiuntamente il bene della comunità intera, cioè lo sviluppo del paese. A tal proposito, il problema fondamentale è in questo caso di due ordini e prescinde dalle proposte che il governo ha formulato in giugno, o che sta elaborando con la Finanziaria per il 2003.

Il problema principale, anzitutto, sta nelle funzioni obiettivo di chi partecipa al patto. Le parti sociali, normalmente, ne hanno una specifica, protesa alla difesa degli interessi degli iscritti che rappresentano: i sindacati dei lavoratori iscritti, le organizzazioni datoriali delle imprese. Quando si decide di sottoscrivere un patto per lo sviluppo di un paese, invece, la funzione obiettivo alla base delle decisioni di ognuno, non dovrebbe essere di tipo “interna”, ma piuttosto guardare alla comunità intera, a prescindere dalle sue singole componenti (cioè dal loro status di insider o di outsider rispetto alle organizzazioni rappresentative). In condizioni normali, gli interessi di sindacati e di imprese potrebbero non essere collidenti (generalmente è così), e spetta al governo (cioè ad un’organizzazione super partes, il cui unico obiettivo è massimizzare il benessere della collettività) il compito di mediare tra di loro. Quando si sottoscrive un patto per il paese, però, il gioco delle parti dovrebbe svolgersi un po’ diversamente: in questo caso, difatti, all’Esecutivo spetta non solo il ruolo di mediatore, ma anche di propulsore delle iniziative per la crescita territoriale; mentre le parti sociali dovrebbero individuare come prioritario l’ottenimento del benessere generale del paese, ed in virtù di ciò rinunciare parzialmente alla difesa, nel breve periodo, degli interessi dei propri associati. Naturalmente, tutto ciò si basa su due assunti fondamentali: una forte fiducia nelle capacità del governo di ottenere risultati in termini di sviluppo, e l’assenza di “miopia” nelle scelte dei decision maker. L’unico modo, cioè, per cui una scelta legata al benessere generale (quindi anche degli outsider) possa sopravanzarne una connessa a quello dei propri iscritti, è dotarsi di una visione di lungo periodo: nella misura in cui i ritorni futuri superino il valore delle rinunce di oggi, possono avallarsi operazioni in tal senso.

Ciò che abbiamo descritto in poche righe, dovrebbe riassumere il vero senso della concertazione tra le parti sociali, che non è – come finora è stato in Italia – solo accordo sulla politica dei redditi. In un’accezione molto più ampia, invece, la concertazione indica la condivisione, da parte delle organizzazioni sindacali e datoriali, di un obiettivo di comune interesse (generalmente, la crescita del sistema economico), e la realizzazione di tutte quelle azioni atte a contribuire al suo ottenimento: siano esse relative alla moderazione nel livello salariale, alla riforma del mercato del lavoro o del sistema pensionistico, all’elaborazione di una linea strategica per lo sviluppo delle aree svantaggiate. Quello in Italia, invece, è stata una concertazione un po’ monca, dove in realtà anche quando le parti hanno rinunciato a difendere alcuni loro interessi nel breve periodo, poco hanno considerato un approccio strutturale alle questioni del paese: così, l’unico, anche se rilevante, risultato che si è riuscito ad ottenere, è stato un sistema di moderazione salariale cui però non è seguita la costruzione di un più lungimirante percorso di crescita per l’economia. Demeriti, in questa gestione, sono da addossarsi naturalmente non solo alle parti sociali, ma anche ai passati Esecutivi, che non hanno saputo concretizzare progetti di sviluppo adeguati alle esigenze del Paese, attorno a cui coagulare non solo il consenso del momento, ma anche la fiducia di tutti gli attori chiamati ad agire. Sarebbe infine da chiedersi se un sistema così complesso, come una nazione, potrà mai riuscire a comporre le esigenze di tutte le parti che ne costituiscono l’ossatura socioeconomica e ad indirizzarle verso un complessivo progetto di sviluppo. Poche righe per dire che la soluzione è ovviamente non banale, ma esiste; e che c’è anche un esempio – l’Irlanda – di come da una seria concertazione tra le parti possa nascere un vero patto, e di rimando un periodo di forte crescita per il sistema.

La Repubblica irlandese, nei primi anni Novanta, ha fondato proprio sulla condivisione di un percorso di sviluppo – complesso ma necessario – il rilancio di quella che da economia agricola è divenuto sistema ad alto contenuto tecnologico, fortemente attrattivo rispetto ai capitali esteri. La ricetta, anche in questo caso, è stata politica dei redditi, riforma del sistema di welfare e di tassazione, privatizzazioni, strategia di marketing territoriale: la ridotta estensione del paese (appena 6 milioni di abitanti) e l’assenza di un dualismo economico (tutta l’area era poco sviluppata, tant’è che il Fondo di Coesione dell’Unione Europea è intervenuto ovunque, finanziando fino al 90% dell’investimento), ha decisamente contribuito alla buona riuscita dell’operazione. Ma se non vi fosse stato alla base un ottimo lavoro da parte dell’Amministrazione Pubblica, che ha saputo mediare, progettare ed essere credibile, ed un’elevata dose di long-sightening da parte di sindacati e organizzazioni datoriali, l’Irlanda non sarebbe cresciuta per un decennio a tassi del 6% l’anno.

Il futuro del nostro paese è in buona parte legato a come, nei prossimi mesi e nei prossimi anni, la parti in gioco saranno capaci di costruire un’intesa finalizzata allo sviluppo. Ciò dipenderà da quanto il governo sarà in grado di proporre scenari credibili ma soprattutto “virtuosi” (non solo dal punto di vista della stabilità, ma anche della crescita); da come le imprese stabiliranno una corretta e rigorosa condivisione degli obiettivi di crescita con i sindacati; da come, infine, questi ultimi accantoneranno velleità politiche e vetero-impostazioni e si focalizzeranno sul benessere (presente e futuro) dei lavoratori (iscritti e non). Solo allora, e solo in quel caso, potremo parlare davvero di un “Patto per l’Italia”.

11 ottobre 2002

a.gumina@libero.it

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