Perché i conti non tornano
di Francesco Forte
La irosa polemica estiva sui conti dell’economia italiana e della
finanza pubblica, condotta da una sinistra digiuna di potere da un
anno, dopo un sogno roseo, che durava oramai da due lustri,
dall’epoca di inizio di Mani pulite, induce a riflettere con
maggiore calma e precisione: a) su quello che è realmente accaduto
nello scenario internazionale; b) sulla situazione italiana; c)
sulle previsioni per il futuro; d) sulla linea di condotta che
dovrà tenere il governo italiano, nel quadro europeo. In
particolare sarà necessario soffermarsi sulle proposte di modifica
del Patto di stabilità europeo di Amsterdam e delle regole di
Maastricht sui debiti e i deficit: perché su questi temi si è
oramai sviluppata una vasta discussione, in parte in rapporto alle
politiche keynesiane. Queste un tempo erano un cavallo di
battaglia della sinistra. Ma ora, almeno in Italia, sembra che la
sinistra abbia dimenticato Keynes.
Innanzitutto, partiamo dalle vicende americane. Quello che è
accaduto negli Usa nel secondo trimestre del 2002 può essere
sintetizzato da una valutazione del presidente della Federal
Reserve, Alan Greenspan: le deviazioni che sono emerse nella
corporate governance degli Stati Uniti, dal caso Enron, a quello
World Come, hanno minato la fiducia del risparmiatore
nell’investimento e hanno generato una imprevista ondata
regressiva. Le sue conseguenze future sono difficili da valutare,
ma essa di certo influisce negativamente sulla situazione
economica degli Usa, nel secondo, nel terzo e nel quarto trimestre
attuale. Ne consegue che, mentre si prevedeva una crescita
dell’economia Usa del 2,5 per cento nel 2002, per effetto della
ripresa nel secondo semestre di quest’anno, ora il Fondo Monetario
Internazionale valuta al 2,2 per cento l’andamento complessivo
dell’economia Usa nel 2002. Dalle mezze frasi di Greenspan emerge
la possibilità che la ripresa si allontani maggiormente. E per
questo, mentre scriviamo – agosto 2002 – la Fed non ha sparato
l’ultima cartuccia, consistente nel ribasso di 0,25-0,5 punti del
tasso di interesse a breve che è già al modestissimo livello dello
1,75 per cento, ma si riserva di farlo prossimamente. Dalla crisi
di World Com e da altri eventi, si desume, per altro, che
l’economia high tech Usa sta subendo un effetto di sovra
investimento maggiore di quello che si pensasse nel settore dei
telefoni, che si ripercuote su una vasta gamma di settori
connessi. Ed è assai pesante la diminuzione della crescita
prevista per l’economia americana dal Fondo monetario per il 2003:
anziché un +3,25 per cento, solo il +2,5 per cento. In sostanza,
nel 2003, gli Usa non saranno quella locomotiva dell’economia
mondiale che si sperava.
A questo punto, dobbiamo passare all’Europa, dove si registra uno
sgonfiamento della congiuntura economica. La spagnola Telefonica e
la finlandese Sonera si sono ritirate dal mercato dei telefoni di
terza generazione (3G) annunciando che rinunciano all’uso della
licenza che avevano comperato e che la ammortizzeranno, con i
mezzi resi disponibili dall’avere tirato i remi in barca. Subito
dopo anche Orange, una delle star della telefonia d’avanguardia,
ha ammesso di avere sbagliato i calcoli e ha chiesto una proroga
alla Svezia per l’attuazione di una rete di telefonia cellulare,
in cui possiede una licenza di 3G, con impegno di copertura del
99,98 per cento del mercato entro il 2003. Il costo degli
investimenti per le reti e le stazioni di base è troppo elevato,
rispetto al traffico previsto. Ciò perché la trasmissione di dati,
da parte degli operatori d’affari, che doveva costituire la crema
del traffico del 3G non sembra si materializzi in misura
consistente, anche a prescindere dalla cattiva congiuntura. Le
attuali capacità delle reti telefoniche fisse, accresciute
mediante la cablatura sembrano più che sufficienti per vario
tempo. Il fatto che il sistema 3G possa fornire trasmissioni con
velocità doppia non appare decisivo, per spostare il traffico ai
3G, salvo nel caso di drastiche riduzioni di tariffe, rese
possibili dal fatto che si possono mandare più dati per unità di
tempo. Ma come ridurre le tariffe, se gli investimenti sono
costosi e le imprese telefoniche hanno 200 miliardi di dollari di
debiti (o euro), in buona parte fatti per acquistare le licenze
dai governi? Telecom France è vicina al dissesto, la crisi di
Deustche Telekom ha determinato la cacciata dal vertice di Ron
Sommer, astro della nuova generazione tedesca di imprenditori.
Erickson, a causa del rallentamento produttivo del settore
telefonico è in difficoltà. E anche la prospettiva brillantissima
Nokia si è appannata.
Le previsioni del Fmi per l’economia europea sono cupe, in
particolare lo sono per quella della Germania. Infatti, nel 2002
la crescita del Pil tedesco, secondo queste stime sarà solo dello
0,7 per cento. Soprattutto è deludente il dato per il 2003, in cui
ci sarebbe solo un esile miglioramento di 0,4 punti al +1,1 per
cento. E tutta l’Europa ne soffrirà. E’ agevolmente spiegabile –
senza chiamare in causa una crisi del modello capitalistico
americano che rimane quello dominante, sulla scena mondiale – la
prospettiva di un andamento economico “a piccolo trotto”che emerge
per gli Stati Uniti. Essi stanno raccogliendo i cocci di un lungo
periodo di boom e di euforia dell’economia e della borsa, cui è
seguita una recessione, tutto sommato modesta, in confronto ai
grandi cicli del passato. La fase di ristrutturazione è in atto. E
quel 2,5 per cento di crescita del Pil nel 2003, che fa storcere
il naso a Washington sarebbe considerato un annuncio radioso a
Berlino. Ciò che non è spiegabile, con riferimento al
rallentamento dopo un periodo di alta congiuntura, è la incapacità
dell’Europa della moneta unica di crescere. E in particolare si fa
fatica a credere che l’economia tedesca, che pure presenta grandi
imprese con tecnologie avanzate e proiettate sui mercati
internazionali, sia così poco dinamica. Sorprende che, nonostante
i quattro milioni di disoccupati, Berlino non riesca a rendersi
conto che deve esserci qualcosa di sbagliato, nel modello
economico che esso ha, sin qui, orgogliosamente gestito. Compresi
gli sgravi fiscali alle grandi imprese che sono serviti a
migliorarne i bilanci, ma non a suscitare una nuova ondata di
investimenti.
Probabilmente siamo di fronte a una crisi sempre più profonda dei
modelli economici dell’Europa continentale, basati su un’elevata
tassazione, su un’elevata rigidità dei contratti di lavoro, su
posizioni di monopolio di “campioni nazionali” dell’industria e
della banca, fra di loro intrecciati: ossia il modello renano di
Stato del benessere con concertazione sociale e grande capitale
privilegiato. Dopo la creazione dell’euro pochi progressi sono
stati compiuti – salvo i recenti tentativi italiani – per
smantellare questo modello. Ma il discorso sul tema ci porterebbe
troppo lontano. Ora ci basta annotare che il rialzo dell’euro sul
dollaro non ha avuto luogo in virtù di un effetto propulsivo da
parte del mercato finanziario europeo sull’economia dell’area
della moneta unica, ma a causa della debolezza di Wall Street, di
cui abbiamo visto le cause. E ciò comporta che questo rialzo ha
generato un rallentamento dell’esportazione europea, in un periodo
di bassa domanda interna, con conseguenze negative sulle
previsioni economiche di quest’area.
Il terzo aspetto del non previsto rallentamento congiunturale del
2000 riguarda l’America Latina: crisi dell’Argentina, poi crisi
del Brasile e dell’Uruguay . L’Fmi è sotto accusa assieme
all’amministrazione Bush. L’aiuto di 30 miliardi di dollari al
Brasile del Fondo, deciso in fretta, di fronte al rischio di una
crisi che poteva travolgere tutta l’America Latina, ha suscitato
le aspre critiche di Le Monde, che chiede addirittura la
soppressione del Fondo. Non si avanzano critiche al massiccio
intervento a favore del Brasile, che appare, anzi, tardivo ma al
ruolo di questa istituzione, che sarebbe complessivamente
perverso. Il quotidiano francese sostiene che la crisi
latino-americana attuale dipende dagli errori del Fondo Monetario
Internazionale, che agisce sotto il dominio degli Usa, le cui
decisioni sono molto spesso contraddittorie, Bush aveva predicato
la severità. Ma dopo avere portato l’Argentina quasi allo sfascio,
con la linea dura, il ministro del Tesoro, O Neil, si è
precipitato in Uruguay, con 1,5 miliardi di dollari di anticipo su
quelli che ha chiesto al Fmi di erogare. Poi ha sollecitato
l’intervento di 30 miliardi in Brasile, senza l’accordo sulle
clausole di rigore che il Fondo suole porre, come condizione per
gli interventi. Va però aggiunto che la crisi argentina ha altre
cause. Essa, per combattere l’inflazione, aveva adottato il
sistema di parità rigida con il dollaro, basato sul cosidetto
currency board, per cui a ogni peso emesso doveva corrispondere un
dollaro nelle riserve del governo federale di Buenos Aires. Ma il
rialzo eccessivo del dollaro, rispetto all’euro e ad altre monete,
ha messo in ginocchio l’economia argentina, sicché essa ha dovuto
abbandonare il regime di dollarizzazione.
Il Fondo Monetario ha sbagliato a non intervenire immediatamente
in soccorso di uno Stato, il cui errore principale era di avere
creduto nel dogma del cambio fisso, che nessun economista fautore
dell’economia di mercato ritiene di poter accettare, ma che era
stato accolto con favore del Fondo Monetario, oltreché dagli
economisti di Clinton e da quelli di Bush. Si guardava con
soddisfazione al fatto che la crisi argentina, pur drammatica per
questa nazione, non aveva suscitato un effetto domino sui Paesi
vicini. Ma è bastato che nelle elezioni presidenziali del Brasile
di autunno emergessero come probabili vincitori nella campagna di
autunno due candidati della sinistra sindacale, cui qualche gruppo
di capitalisti locali strizza l’occhio, per innescare l’effetto
domino, sul Brasile e sull’Uruguay. I mutamenti di linea del Fmi
hanno disorientato l’ambiente finanziario e hanno ridotto la
credibilità nell’efficacia di questi grossi interventi. Si
accusano gli Usa di dettare legge al Fondo e di farlo in modo
incoerente. Ha ragione Le Monde a sostenere che l’Europa dovrebbe
essere più presente con riguardo alla linea della massima
istituzione mondiale di regolazione monetaria. Ma l’Europa è
latitante anche per quanto riguarda la sua propria politica
fiscale comune. E non vi è alcun tentativo di colloquio
istituzionale fra la Commissione europea e il Parlamento europeo e
la Bce, nel quadro dell’autonomia di questa. La discussione sulla
sostituzione anticipata del presidente della Bce, Wim Duisenberg,
con un finanziere francese (Claude Troichet, o chi altro) aggiunge
incertezze. Anche queste contribuiscono ai comportamenti
oscillanti della Fed, del Tesoro degli Usa, dell’Fmi.
In questo scenario la debolezza della situazione economica
dell’economia nell’America Latina non sembra davvero destinata a
dissiparsi. E in tutto questo si inserisce la perdurante grave
stasi economica del Giappone. Le previsioni sull’economia italiana
del “Documento di Previsione economica e finanziaria” fatte dal
ministro dell’Economia e Finanze del governo attualmente in carica
per il 2002-2006 – che contemplavano un aumento annuale del Pil in
termini reali del 3 per cento per tutto il periodo sulla base di
un andamento tendenziale del 2,2 per cento per il 2002 e il 2003 e
del 2,1 per cento per i tre anni successivi – erano troppo
ottimistiche. Ciò anche nell’estate del 2001, come non mancai di
rilevare allora, in un articolo su Il Foglio. L’andamento
tendenziale su cui si innestava la previsione di crescita di un
punto percentuale, dovuto alla politica economica del nuovo
governo era troppo elevato, in rapporto al quadro europeo.
Tuttavia, quando erano state preparate queste stime non si era
ancora verificato l’11 settembre. E, generalmente, si prevedeva
per la fine dell’anno un recupero dell’economia europea. La
locomotiva europea, si asseriva allora, in autorevoli ambienti
internazionali, avrebbe sostituito quella degli Usa, come traino
di quella mondiale. Successivamente all’11 settembre, la revisione
delle stime economiche, da parte di molte istituzioni pubbliche,
fu ispirata a prudenza, anziché a realismo, onde evitare effetti
psicologici troppo negativi, che avrebbero aggravato il clima di
minaccia, creato dai terroristi di Al Qaeda. Troppo breve fu il
sospiro di sollievo, generato dalla rapida vittoria degli
occidentali in Afghanistan. Presto ci si accorse che i capi del
movimento terroristico non erano stati eliminati e che, comunque,
le vere centrali erano altrove. La ripresa di fine anno non vi fu.
Un realistico pessimismo cominciò a prevalere nei centri di
ricerca economica europei.
Il governo rettificò al 2,4 per cento la previsione per il 2002.
La prima parte dell’anno, in Europa, era caratterizzata da un
andamento molto debole. Il nostro ministero dell’Economia preferì
mantenere una linea ottimistica, resa via via più difficile dal
rialzo dell’euro che riduceva le capacità di esportazione italiane
come tutte quelle europee (già ostacolate dalla debolezza della
congiuntura internazionale). Intanto si manifestava la crisi della
Fiat sul mercato interno, in contrasto con i risultati delle case
concorrenti, che ne erodevano le quote di mercato. Forse sarebbe
stato sbagliato dare, in quelle circostanze, agli italiani un
messaggio pessimistico nel Dpef 2003-2006. In ogni caso, quando
intervenne il caso Enron, e si vide che anche l’economia americana
avrebbe tradito le aspettative di robusta ripresa a fine 2002,
mentre l’euro raggiungeva la parità con il dollaro, il nostro
governo all’inizio di luglio ha provveduto a modificare le
previsioni, sostituendo nel Dpef, alla stima di crescita del Pil,
una previsione molto cauta di aumento dello 1,3 per cento soltanto
in termini reali. Anche sulla base di tale previsione, è stato
mantenuto il progetto di prima tranche di riduzione delle imposte
sui redditi, che era stato preannunciato, in coerenza con il
programma di governo. Il fare ciò era del tutto logico: di fronte
a una situazione economica debole, a causa della riduzione della
domanda europea e internazionale e della crisi della maggiore
impresa industriale domestica, dovuta a suoi specifici fattori,
non è certo ragionevole annunciare che i previsti ribassi fiscali
saranno abbandonati. Ma di ciò, più avanti.
Una polemica strumentale che non tiene conto dei dati
Ora dobbiamo occuparci della furibonda polemica che si è
sviluppata ai primi di agosto, quando è emersa una serie di dati
poco buoni sull’andamento economico e sugli introiti fiscali del
2002. L’opposizione ha argomentato che i risultati denotavano un
fallimento della politica economica del governo e che in base ai
nuovi dati le promesse di riduzioni di imposte non potevano (o
dovevano) essere mantenute. Ma tutto ciò è sbagliato. La notizia
del dato di giugno, di una flessione dell’indice della produzione
industriale del 5,4 per cento rispetto al giugno del 2001 è stata
presentata con clamore, omettendo di dire che questo giugno vi era
una giornata lavorativa in meno del giugno 2001. Tenuto conto del
diverso numero di giornate lavorative, la flessione del giugno
risulta dello 1,7 per cento. Non è un dato positivo, ma non è un
tracollo. E, soprattutto, si tratta dell’indice della produzione
industriale, con base 1995. Questo è un indice fisico, non di
valore, non tiene conto dei mutamenti qualitativi, dovuti al
progresso tecnologico. Inoltre la composizione del paniere cui si
riferisce è del 1995. Nel frattempo sono entrati in campo prodotti
nuovi (informatici, ad esempio) non contemplati nell’indice. E
alcuni prodotti, importanti nel 1995, sono ora in declino, perché
sostituiti da altri, che non sono rappresentati nell’indice o lo
sono in misura insufficiente rispetto al loro peso attuale. Infine
l’area della produzione industriale si è allargata soprattutto nei
“beni intelligenti”dotati di un’esigua base materiale, senza che
il vecchio indice fisico ne tenga conto.
Le innovazioni risparmiano materiali a parità di prodotto, anzi
con prodotti migliori (i telefonini sono sempre più piccoli e
leggeri, così i computer). Che questo indice abbia
rappresentatività sempre più dubbia rispetto all’andamento
dell’economia, emerge dalla contraddizione fra i dati di tre
settori produttivi che nel giugno del 2002 sono saliti rispetto al
giugno 2001 e gli altri settori che sono invece scesi. Le
produzioni di energia elettrica, gas e acqua presentano questo
giugno un +5,3 per cento rispetto al giugno 2001; le raffinerie di
petrolio esibiscono addirittura un +7 per cento, gomma e plastiche
un +1,9 per cento. Gli indici dell’andamento di questi tre settori
sono generalmente buoni indicatori della dinamica dell’economia
produttiva e del consumo civile, a cui essi sono strumentali. Ma
gli indici fisici di tutti i settori produttivi, diversi da questi
tre, sono in calo e la domanda di consumi, stando ai dati
ufficiali, sarebbe in declino (primo trimestre) o stagnante. Dove
sono mai finiti quell’elettricità e quel gas? E perché le
raffinerie lavorano il 7 per cento in più dello stesso mese del
2001, nonostante un giorno di lavoro in meno? Dove pensano di
vendere quella benzina, quel gasolio, quell’olio combustibile in
più? E come mai la produzione di plastica, con un giorno di lavoro
in meno, è aumentata del 2 per cento? Domande senza risposta,
salvo ammettere che l’indice fisico della produzione industriale
con base 1995 non dà più il polso dell’andamento economico. Non si
tratta di economia sommersa, ma di economia non rilevata
statisticamente, il che è diverso. È accaduto anche negli Usa
negli anni ’90, nella fase di sviluppo high tech simile a quella
in cui ci troviamo ora noi.
Ed ecco il secondo dubbio. Il prodotto nazionale nel complesso
crescerebbe, nel primo semestre, solo dello 0,3 per cento. Ma, in
contrasto con questi dati, ci sono quelli dell’occupazione. Essa,
secondo l’Inail sarebbe aumentata di 845.000 unità nel primo
semestre. E secondo l’Ocse la disoccupazione è scesa al 9,1 per
cento contro il 9,6 dello scorso anno. Nessuno nella nostra
sinistra fa cenno a questo dato, mentre si era riso con
scetticismo quando Berlusconi aveva promesso la creazione di un
milione di posti di lavoro, non in un anno, ma in più anni. Com’è
possibile questa crescita occupazionale, mentre l’economia
sembrerebbe al palo? Ammessa una modesta crescita di produttività,
cioè del prodotto per addetto, dello 1 per cento, con le attuali
stime dell’aumento del prodotto nazionale reale del +0,3 per
cento, vi dovrebbe essere un calo dell’occupazione, non un
aumento. È impossibile che la nuova occupazione sia tutta
emersione di economia sommersa. Infatti, la legge sull’emersione
dell’economia sommersa ha sin qui funzionato in misura irrisoria.
Ma ammettendo pure che una buona parte di questa maggiore
occupazione consista di emersione del sommerso, ciò dovrebbe
risultare nel calcolo del prodotto nazionale, trattandosi di un
totale cospicuo. Ma non se ne parla. Dunque la stima di un misero
0,9 per cento di crescita del Pil del 2002, non convince.
Concludendo: la crescita dello 1,3 per cento del Pil del 2002, di
cui al Dpef, non può essere smentita allo stato delle informazioni
dai dati Istat sull’indice della produzione industriale.
Accanto alla revisione dell’andamento tendenziale – sovrastimato –
e al sopraggiunto peggioramento del quadro internazionale e alla
crisi della Fiat, occorre considerare il fatto che il programma
dei cento giorni e le successive misure, con cui il governo
Berlusconi pensava di rilanciare la nostra economia, non hanno
avuto sino ad ora gli effetti sperati. In quel punto di maggior
crescita dovuto al programma del nuovo governo vi era un elemento
di ottimismo, soprattutto per quanto riguardava l’impatto
immediato. Come ho spiegato altrove, la politica dell’offerta, su
cui fa perno questo programma, per sua natura, ha soprattutto
effetti di medio-lungo termine, quelli immediati sono meno
rilevanti. Ma a parte ciò, vari fattori hanno agito da freno.
L’immagine di un governo favorevole all’impresa come quello
Berlusconi su cui si contava, per un effetto immediato di
rilancio, è stata effettivamente recepita dagli operatori
economici: lo dimostra la fiducia dimostrata, con il successo
dello scudo fiscale, che ha comportato il rientro contabile in
Italia di 54 miliardi di euro, di residenti esteri, contro una
previsione di 50, già alta: il successo dell’operazione non è
spiegabile certo con la disillusione circa l’investimento
finanziario internazionale del risparmio, dato che una quota
cospicua di essi è rimasta nelle banche estere. Ma mentre si dà
credito a questo governo, circa la sua volontà e capacità di
ridurre le imposte e smantellare i “lacci e laccioli” che
ostacolano la libera iniziativa, si sono dovuti riscontrare due
eventi, che hanno ostacolato la volontà e la capacità di
investire, innovare e rischiare. Innanzitutto il varo delle grandi
opere e la stessa politica degli investimenti pubblici hanno
trovato il freno di lungaggini procedurali difficili da superare,
mentre la legge Merloni sui lavori pubblici si rileva sempre più
macchinosa e foriera di potenziale corruzione, come la Corte dei
conti ha, con preoccupazione, segnalato.
La furibonda campagna contro le modeste attenuazioni dell’articolo
18 dello Statuto dei Lavoratori per le piccole imprese e il Sud,
prima con uno sciopero generale, poi con la promessa di iniziative
agitatorie in autunno, è servita per togliere dal progetto
governativo i benefici per il Sud e ha ingenerato dubbi sulla
possibilità di proseguire nella flessibilità del mercato del
lavoro. Soprattutto, ha generato nelle imprese piccole e medie un
clima di attesa, in relazione all’effettiva incidenza che questa
nuova linea potrà avere, nelle relazioni aziendali. E’ paradossale
che mentre la Fiat si prepara a perdere migliaia di addetti,
tramite procedure di risoluzione collettiva dei contratti di
lavoro e si invoca, ormai anche da parte della sinistra, un
tempestivo intervento della General Motors a rilevarne il settore
auto, la Cgil conduca una campagna volta a creare tensione nelle
fabbriche e a ostacolare le forme di flessibilità del lavoro.
Quasi un invito a de-localizzare dall’Italia l’auto e le industrie
connesse. In queste condizioni, la scelta del governo di
dichiarare che la sua politica rimane immutata, in particolare nel
campo tributario, appare una linea obbligata: per dare un
orizzonte di fiducia al mondo della produzione, affinché non vi
sia lo sciopero degli investimenti e prosegua la messa in regola
del lavoro irregolare e l’assunzione di manodopera.
E qui si viene alle cause e ai problemi dello scarso gettito
fiscale erariale, registrato nel primo semestre del 2002, il cui
incremento è solo dello 1,5 per cento. Questo aumento non
corrisponde alla crescita del Pil secondo le stime Istat. Infatti
sommando al tasso di inflazione un po’ superiore al 2 per cento la
misera crescita reale ufficiale dello 0,3 per cento, si ha un
aumento del Pil nominale del 2,5 per cento circa. Invece, con un
+1,5 per cento le entrate fiscali affluite al Tesoro sarebbero
cresciute di meno del tasso di inflazione, cioè sarebbero
diminuite, in termini reali di uno 0,5. Ma le entrate contributive
facenti capo all’Inps, nel primo semestre, presentano una crescita
del 4 per cento: trattandosi di contributi proporzionali ai costi
del lavor; ciò implica un’analoga crescita dei redditi da lavoro
dipendente e autonomo, tassati con i contributi che affluiscono
all’Inps. La causa dell’anomala flessione, in termini reali, delle
entrate fiscali erariali sta essenzialmente nel cattivo andamento
dell’autotassazione di giugno, che è la somma del saldo su quanto
anticipato nel 2001 e dell’acconto del primo semestre 2002. Essa
presenta una flessione del -15 per cento per l’Irpef e del -18 per
cento per l’Irpeg, che non si spiega certo con la semi-stagnazione
economica registrata dall’Istat, ma contraddetta dai dati sulla
dinamica dell’occupazione e delle entrate contributive. Se anche
il prodotto nazionale in moneta corrente quest’anno fosse eguale a
quello dello scorso anno, non vi sarebbe ragione per avere un calo
delle entrate di autotassazione di questa entità.
La cause vanno cercate altrove. Innanzitutto pesa negativamente la
rivalutazione dei cespiti nei bilanci delle imprese, stabilita
dall’allora ministro delle Finanze Visco. Questo in quanto essa è
stata accompagnata dalla possibilità di effettuare, sin dal primo
anno ad essa successivo, ampi ammortamenti, corrispondenti al
maggior valore dei cespiti rivalutati. Ciò ha inciso sui bilanci
fiscali che hanno redatto le società, per lo scorso anno e, in
previsione, per questo, ossia sui conguagli di autotassazione e
sugli anticipi della prima rata 2002. Un altro fattore, che limita
i debiti fiscali delle imprese, nell’anno in corso, dovuto a
Visco, è l’effetto cumulativo della Dit (Dual income tax) e super
Dit, che esonerano il reddito presunto degli utili delle imprese
destinati a investimenti: senza distinguere quelli di rimpiazzo da
quelli nuovi. Il tributo non genera uno stimolo specifico ai nuovi
investimenti, a differenza della legge Tremonti, che agevola gli
investimenti aggiuntivi rispetto alla media di quelli degli anni
precedenti. Ma Dit e super Dit erodono, man mano in misura
crescente, la base imponibile, per le imprese già da tempo sul
mercato, che si finanziano reinvestendo gli utili. A ciò, sempre
sul conto dell’allora ministro Visco, si aggiunge il fatto che il
lavoro coordinato e continuativo è stato tassato alla fonte,
mediante trattenuta e pertanto non dà più apprezzabili introiti
nell’autotassazione. Infine, è da presumere che sui redditi
imponibili del 2002 peserà l’effetto della legge Tremonti bis,
che, come accennato, agevola fiscalmente gli investimenti
aggiuntivi. Se la somma di sgravi generata dalla Tremonti fosse
ampia, ci sarebbe da rallegrarsene, perché vorrebbe dire che il
ciclo dell’investimento in Italia sarà in ripresa. E i gettiti
perduti in sede di tassazione dei redditi di impresa e lavoro
autonomo si ritroveranno nella tassazione indiretta sul maggior
giro d’affari e di consumo e nei maggiori introiti contributivi.
Il problema della minor dinamica delle entrate del 2002, come si è
notato, in parte notevole è imputabile alla politica tributaria
del precedente governo, che ha tagliato l’erba nel terreno su cui
avrebbe dovuto raccogliere il governo successivo. A ciò bisogna
aggiungere il buco di circa un punto di prodotto nazionale lordo,
che è stato trasmesso dal governo di centro-sinistra, che ha
portato il deficit 2001 al 2,2 per cento del Pil contro lo 1,2 per
cento preventivato.
Va anche aggiunto che la delibera di Eurostat, l’Ufficio
statistico della Comunità europea, di disconoscere come entrate di
competenza nell’esercizio in cui sono effettuate le cessioni di
immobili compiute mediante cartolarizzazioni parziali, in corso di
attuazione da parte del ministro Tremonti, ha ridotto di mezzo
punto le entrate del 2001 e, presumibilmente, di uno 0,3 per cento
quelle del 2002. E’ assurdo che sia un Ufficio statistico a
decidere sull’interpretazione del contenuto contabile delle regole
del Patto di stabilità di Amsterdam e di Maastricht, anziché
Ecofin, l’organo dei ministri finanziari del Consiglio europeo. E
il presidente della Commissione europea, da cui questo Ufficio
dipende, è anche candidato a dirigere il centro-sinistra, nella
tornata elettorale alla fine della legislatura in corso. Se il
bilancio 2002 fosse partito da un disavanzo del 2001 dello 1,2 per
cento del Pil, o almeno dello 1,7 per cento, tenendo per buoni i
proventi delle cartolarizzazioni disconosciuti da Eurostat,
sarebbe più facile raggiungere, comunque, nel 2002 il traguardo di
un deficit dello 0,5 per cento come stabilito negli impegni
comunitari. È difficile stimare se, con la riduzione della
dinamica delle entrate e il buco pregresso, si arriverà a un
deficit fra lo 0,5 e lo 1,1 per cento del Pil come stimato dal
governo sino a tutto luglio, oppure esso toccherà lo 1,5 per cento
-1,7 per cento. L’Unione europea ha già corretto la stima del
nostro governo del luglio, di un massimo dello 1,1 per cento,
ritenendo che il livello fosse piuttosto di un 1,3 per cento.
Ormai si discute apertamente dell’esigenza di allentare il rigore
del Patto di stabilità europeo e vengono avanzate le proposte più
svariate, molte delle quali inaccettabili, in quanto in contrasto
non con tale Patto, ma con le regole di Maastricht, che fanno
parte della Costituzione fiscale e monetaria europea e, come tali,
non dovrebbero essere modificate, se non con una procedura di
revisione del Trattato chiaramente improponibile, alla luce delle
istanze di rafforzamento della cornice costituzionale dell’Unione
europea e, comunque, tale da richiedere tempi lunghi. Le regole di
Maastricht impediscono di togliere dal calcolo del deficit il
complesso delle spese di investimento o una parte di esse, come le
spese per infrastrutture o i progetti di sviluppo economico e
sociale co-finanziati dai fondi comunitari. Il Trattato di
Maastricht, infatti, nel fissare il 3 per cento come limite ai
disavanzi ammessi, specifica che si potrebbero tollerare deroghe,
in casi particolari, anche tenendo conto del fatto che si tratta
di spese di investimento. Da ciò si desume che le spese pubbliche
di investimento, vanno incluse tutte, ai fini del calcolo deficit:
semmai si può tollerare un deficit superiore al 3 per cento del
Pil. Ma ciò è precluso ai Paesi che abbiano un debito superiore al
60 per cento del Pil, come l’Italia, per i quali vi è un obbligo
di riduzione tendenziale del rapporto fra debito e Pil. La
Germania, se varcasse non solo il tetto del 3 per cento del
deficit sul Pil, ma anche quello del 60 per cento del debito sul
Pil dovrà spiegare in che misura ciò non violi il Trattato di
Maastricht. Per l’Italia la soglia da non varcare, per evitare una
crescita del rapporto debito/Pil è quella di un deficit pari al
2,5 per cento circa, che è quello del tasso di crescita monetario
del Pil. Infatti, con un rapporto debito Pil del 108 per cento
come quello italiano, ogni punto di inflazione riduce il peso del
Pil sul prodotto lordo dello 108 per cento. Come si nota, non è di
violazioni delle regole del Trattato di Maastricht che si dovrà
discutere per l’Italia, anche nella peggiore delle ipotesi.
Si tratta, invece, di discutere dell’applicazione del Patto di
stabilità di Amsterdam, frettolosamente accettato, a suo tempo,
dal governo Prodi, nonostante la palese assurdità delle sue
clausole. Infatti, sia pure in modo tortuoso (ma non ambiguo) in
tale testo si afferma che i governi europei dovranno raggiungere
il pareggio del bilancio o realizzare un surDaily, prima di avere
titolo a realizzare dei deficit, con caratteri anticiclici, nei
periodo di carattere recessivo, in senso statistico. E in questa
argomentazione sono racchiuse due autentiche “bestialità” di
ragionamento. Intanto, le misure anticicliche, dal punto di vista
economico, non hanno bisogno di aspettare che il Pil decresca:
vanno innescate prima che questo accada, per tenere conto dello
sfasamento temporale nei loro effetti, e, inoltre, non vi è nulla
di “sacro” nel fatto che il Pil decresca, per riconoscere una
fluttuazione ciclica verso il basso: si può avere una recessione,
in senso economico (e non statistico), quando il tasso di
crescita, dopo essere stato sostenuto, tende verso lo zero, in
presenza di capacità produttiva inutilizzata e disponibile senza
inflazione. Se si escludessero dal concetto di recessione queste
fluttuazioni non sotto lo zero, ma verso lo zero, non avremmo più
i cicli economici, solo perché uno statistico ha loro cambiato
nome, nonostante che la forma di ciclo sia visibilissima nel
diagramma dell’andamento economico.
E poi che senso ha ammettere che sono ragionevoli le azioni
anticicliche, ma subordinarle al fatto che vi sia stato in
precedenza il pareggio del bilancio o un surDaily? Se esse non
aumentano il rapporto debito/Pil e servono a rianimare l’economia,
e combattere la disoccupazione, senza pericolo di inflazione,
quale è il ragionamento economico – non il cavillo da legulei –
per cui non vanno attuate in presenza di una rilevante
depressione, se il Tesoro non ha realizzato in passato il pareggio
o il surDaily. E, invece, le azioni antcicliche sarebbero
consentite, anche con una depressione minore, se in anni passati
il bilancio era in pareggio ? Vi è chi sostiene che si può evitare
di modificare il Patto di stabilità, perché è abbastanza
flessibile per consentire una sua interpretazione, in relazione
gli impegni di tendere al pareggio del bilancio. Questa soluzione
è più diplomatica ddi quella di modifica esplicita del Patto: e,
soprattutto, essa non lede l’orgoglio di chi a suo tempo lo
scrisse o sottoscrisse o elogiò. In concreto, per l’Italia, è
importante rimanere con un deficit sotto il 2 per cento, che
segnala che ci si avvicina mano mano al pareggio e che si fa
qualche passo, sia pure piccolo, per ridurre il rapporto
debito/Pil anche in periodi di brutta congiuntura. Questo mi pare
debba essere il nostro Piave. Senza rinunciare a riduzioni di
aliquote fiscali, per rispettare il “patto con gli italiani”,
basato sulla politica economica sul lato dell’offerta.
11 ottobre 2002
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