Recessione: due possibili percorsi per
uscire dalla crisi
di Carlo La Moneta
Il dollaro americano sfiora la parità con l’euro. I commentatori
più attenti prendono le distanze dall’euforia nazionalista degli
eurocrati incalliti: Stiglitz, un Clintoniano doc, dalle colonne
del Corriere della Sera qualche giorno fa spiegava che i prezzi
sono prezzi e che il dollaro sconta la contemporanea presenza di
un robusto livello di consumi interni e di un tendenziale
squilibrio corrente dei conti con l’estero. E ricorda agli europei
che hanno poco da stare allegri, perché la ripresa della
produzione nel Vecchio Continente subirà ulteriori ritardi grazie
al venir meno del vantaggio competitivo di una moneta debole che
li rendeva capaci di esportare verso gli Stati Uniti. L’economia
dell’Europa non ha, infatti, un vantaggio tecnologico o una
miglior produttività: le sue esportazioni dipendevano dalla forza
del dollaro, da quel singolare circuito che ha dominato gli anni
Novanta. Le imprese americane, grazie alla tecnologia e
all’innovazione, esportavano prodotti competitivi nel mondo. La
Borsa americana finanziava quelle imprese e distribuiva vantaggi
economici ai sottoscrittori di azioni ed obbligazioni. Da molti
luoghi del mondo, e in primis dall’Europa, il risparmio si
spostava verso la borsa americana e il dollaro si apprezzava
sull’euro. Si dilatava anche il patrimonio dei risparmiatori
americani, grazie alla lievitazione dei corsi di borsa, ed essi
aumentavano i propri consumi o i propri investimenti immobiliari.
Negli Stati Uniti tiravano sia le esportazioni che la domanda
estera ma si allargavano anche le importazioni, e le partite
correnti dei conti con l’estero accumulavano uno squilibrio che
era compensato, in conto capitale, dal risparmio del mondo che
andava verso la borsa americana. Questo circuito è stato spezzato
dagli eccessi raggiunti dalle quotazioni dei titoli americani: la
irrazionale euforia dei mercati, come l’ha chiamata Greenspan. La
terapia di soft lending della bolla speculativa si è scontrata con
l’attentato dell’11 di settembre ed ha lasciato dietro di sé l’eco
degli scandali alimentati dai robber barons: i predoni che, dal
board of directors o dalle compagnie di revisione, ma anche
dall’ambiente degli intermediari e dei brokers, hanno utilizzato
l’euforia irrazionale per scremare i patrimoni che amministravano.
Le mosche vanno sempre sullo zucchero: in Europa si poggiano sul
fiume della spesa pubblica e negli Stati Uniti hanno depredato il
flusso degli investimenti privati. Ora l’Europa e gli Stati Uniti
sono alle prese con un singolare problema: devono uscire dal cul
de sac della crisi e devono fare decollare di nuovo un ciclo di
crescita di lungo periodo. Ma l’Europa se la suona e se la canta:
come dice un vecchio adagio. I leader del Vecchio Continente hanno
deciso di sostituire agli impegni rigidi di Maastricht, per
ridurre la quota dei propri deficit pubblici sul pil, un gope: una
grande opzione di politica economica. Buoni propositi generici,
per capirci. Ma se questi gope si affiancheranno al flaccido
regime interno di Welfare State, che assorbe risorse e non
garantisce un migliore tenore di vita ai cittadini, l’Europa non
riprenderà la propria crescita. E questa mancata crescita sarà
anche la conseguenza del ritrovato valore unitario del cambio tra
euro e dollaro.
Due voci autorevoli ed intelligenti hanno pronunciato diagnosi
attendibili su questo revival del cambio europeo: quella di Carlo
Pelanda e quella di Marcello de Cecco. Su Il Foglio Carlo Pelanda
ha spiegato che esistevano due possibili centri di gravità per il
cambio tra la moneta americana e quella europea. Il cambio di un
dollaro per un euro si giustifica grazie al deficit di parte
corrente dei conti con l’estero degli Usa e allo squilibrio tra
profitti attesi e corso dei titoli sui mercati finanziari di quel
paese. Se non calano i corsi, o non cresce la dimensione attesa
dei profitti aziendali, non riprende la marcia del risparmio
mondiale verso Wall Street. In alternativa, sostiene Pelanda,
poiché il dollaro viene da un eccesso di fiducia e l’euro da un
eccesso di diffidenza, le due monete potrebbero subire una
correzione relativa che, tenendo conto della natura congiunturale
dei problemi americani e della natura strutturale di quelli
europei, dovrebbe dare un centro di gravità alternativo, del
cambio relativo tra le due monete: a 0,90, euro per un dollaro.
Con questa distanza tra i due centri di gravità, e con la
liquidità che giace inoperosa nel mondo, alimentata
dall’incertezza del futuro, sarà una vera cuccagna per gli
speculatori, conclude Pelanda, navigare sulle montagne russe tra
le due quote del possibile equilibrio tra le due monete. Detto e
fatto: il mese di giugno ha confermato la sua profezia.
La medesima diagnosi, più centrata sulle difficoltà delle imprese
americane, strette tra crisi industriale e discredito da eccesso
di robber barons tracciava De Cecco dalle colonne de La
Repubblica. Sia che la si guardi dal lato dei mercati finanziari e
valutari che da quello dei mercati reali, insomma, il problema è
rimettere in moto la macchina americana della crescita. ma quella
macchina non deve subire una revisione generale, deve fare solo un
tagliando. La classe dirigente di quel paese conosce la forza e i
meriti del mercato e non sarà preda delle cassandre che predicano
regolamentazioni e dirigismo per esorcizzare i fantasmi della
crescita selvaggia degli anni Novanta. La macchina europea, al
contrario, si passi la metafora automobilistica, accusa problemi
molto più gravi. Non deve essere “rottamata” ma poco ci manca:
essa deve subire un restyling radicale mentre la fibra culturale
della classe dirigente nel Vecchio Continente è insidiata dalle
sirene della sicurezza sociale e dal mito del modello renano, da
contrapporre a quello americano. Le illusioni sono sempre
pericolose ma l’Europa sembra davvero incapace di liberarsi dal
sogno del passato prima che quel sogno diventi un incubo.
5 luglio 2002
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