Nord-Sud, l’inversione di tendenza
di Massimo Lo Cicero


Bisognerebbe guardare il destino dell’economia italiana senza farsi prendere dall’angoscia della congiuntura. Ma è anche vero che se non si risolvono i problemi di oggi è difficile vedere l’alba del domani. Dovreste trovare un ponte ragionevole tra il passato ed il futuro: risponderebbe la buona politica. Paradossalmente, mentre si discute della crisi latente della finanza pubblica e della fragilità dell’economia reale, la risorsa scarsa per adeguare il tasso di crescita di questo paese alle sue aspettative, ed alla soluzione dei suoi problemi, sembra proprio essere la buona politica. Il paese è molto diviso: quasi come la Gallia di Cesare. Negli ultimi dieci anni l’Italia è cresciuta poco ed oggi, recita la vanagloria nazionale, non siamo più gli ultimi nella graduatoria della crescita: ma solo perché Stati Uniti ed Europa hanno rallentato. L’Italia andava già piano e non ha avuto bisogno di decelerare per non camminare. Gli altri, tuttavia, si stanno rimettendo, faticosamente, in marcia. Mentre i divari interni alla nostra economia potrebbero impedirci di farlo. Se si guardano i numeri della seconda metà degli anni Novanta, il Mezzogiorno ha scavalcato, in termini di tasso di crescita, il triangolo industriale ma è stato battuto dalla terza Italia e dal Nord Est.

Mezza Italia viene trainata dalla deregulation dei paesi ex socialisti; la grande e ricca regione, che giace tra Torino, Milano e Genova, si interroga sul trapasso dall’industria fordista alla civiltà dei servizi; un terzo del paese, il Mezzogiorno, si cura delle sue piccole macchie di leopardo e dimentica le ferite che segnano tutta la pelle dell’animale. L’Italia si frantuma piuttosto che crescere tanto da ridurre i suoi divari interni. Mentre la risposta al problema del Mezzogiorno è difficile e banale al tempo stesso: servono risorse da investire e non ce ne sono. Serve maggiore integrazione con il mercato mondiale per attirare quelle risorse dal resto del mondo mentre le stesse città del Mezzogiorno sono piuttosto satelliti dei centri forti del paese che i nodi di un grande mercato locale e domestico. Le dimensioni del mercato domestico fanno la dimensione delle imprese. E le imprese meridionali non arrivano alla soglia che le renderebbe capaci di arrivare esse al mercato mondiale. Servirebbe uno Stato capace di produrre beni pubblici e governare la dinamica della crescita rispettando il mercato. Lo Stato, in Italia, assorbe la metà del reddito nazionale. Ricordava Antonio Fazio, nelle sue considerazioni finali, che un incremento del 10 per cento nella produttività della pubblica amministrazione rappresenterebbe una crescita del 5 per cento della ricchezza disponibile. Con gli effetti indotti di questa rinnovata efficienza si metterebbe in moto altra ricchezza. Ma perché è così difficile che uffici che producono dieci pratiche al mese ne producano undici? Non mancano i paradossi.

Nel triangolo industriale l’economia del fordismo si sta trasformando in quella dei servizi: ma mancano i giovani laureati, che sono il sale del mondo moderno. Nel Sud quei giovani ci sono, ma non ci sono, ancora, imprese capaci di utilizzarli. Perché nel Sud, per ora, ci sono solo impianti localizzati in omaggio al principio della frammentazione. Frammentazione delle filiere industriali e agglomerazione delle aree urbane sono le due fenomenologie basiche della globalizzazione. L’industria si scompone in segmenti che sono collegati dalla velocità delle comunicazioni e dall’intelligenza delle strategie. L’agglomerazione delle aree urbane, invece, genera esternalità positive: vantaggi, per la moltiplicazione dei consumi e la diffusione del benessere; opportunità per la crescita della conoscenza e la diffusione della cultura. L’Italia non sembra avere consapevolezza di queste chances. Confonde la frammentazione industriale con le polemiche sulle cattedrali nel deserto degli anni Settanta. Guarda alle periferie urbane solo come degrado e dimentica il valore economico delle città: perdendo tutte le opportunità che, ad esempio, la dinamica spagnola degli ultimi anni ha saputo intercettare.

L’Italia si lamenta perché ritrova la libertà di agire sul piano economico e scambia questa rinascita del mercato per arroganza imprenditoriale: riproponendo la lotta di classe come antidoto al liberismo selvaggio. L’Italia, insomma, sembra vittima di un grande fenomeno di dissonanza cognitiva: pensa di vivere nel suo passato e non si accorge di smarrire il proprio potenziale futuro. Per questo la politica è la risorsa scarsa del paese. Ed invece, la politica dovrebbe ricostruire la rappresentanza degli interessi sociali in gioco e modificare lo stato delle cose: nel funzionamento quotidiano della macchina dello Stato; nella percezione dei problemi e delle soluzioni possibili; nella ritrovata libertà di imprese e lavoratori di sfidare il rischio del futuro e di conseguire adeguati rendimenti da queste scelte coraggiose.

Se la politica non regge questa sfida il paese andrà avanti lo stesso ma non sarà capace né di leggere i propri successi né di imparare dai propri errori. I risultati della crescita saranno meno intensi perché gli individui non ne saranno consapevoli e rimarranno prigionieri di vecchi schemi mentali. Schiavi di simboli che non li rappresentano. Mentre, al contrario, i simboli dovrebbero servire per eccitare la ragione, per indurla a sfidare se stessa ed a tentare di avere quello che non sembra ancora a portata di mano. Ad evitare che il passato si trasformi in una gabbia che ci impedisce di vivere il futuro. Servirebbe molto all’Italia questa politica capace di offrire i simboli necessari per avere il coraggio di avanzare nelle nuvole di incertezza che avvolgono, come sempre, il domani.

21 giugno 2002

(da Ideazione 3-2002, maggio-giugno 2002)

maloci@tin.it


 

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