La sfida della democrazia economica
Le ultime vicende politico-economiche italiane - la necessità di
riformare il mercato del lavoro, lo scontro sull'articolo 18, il
dibattito sul dialogo sociale, lo stesso attentato terroristico
che è costato la vita di Marco Biagi - rimandano quasi tutte alla
"questione lavoro". Tutto sembra riportarci alla centralità
strutturale del mondo del lavoro. Esso è ancora il luogo
d'incontro e sovrapposizione tra il momento materiale della
trasformazione, la sua percezione produttiva di vitalità simbolica
e la costruzione di prospettive di crescita economica e ricchezza
diffusa. Certo, la fabbrica e il lavoro operaio hanno perso negli
anni significanza sociale; è tramontato il modello fordista; sono
emersi nuovi modelli di organizzazione aziendale; l'eredità di
questi processi deve, forse, essere ancora registrata dalla
politica nelle sue vibrazioni e potenzialità di lunga durata.
Eppure, uno dei fulcri della possibile trasformazione politica
contemporanea - all'interno del generale processo di
mondializzazione dell'economia (di mondiale operari) - si
determina senz'altro sulla capacità di governare questi nuovi
processi economico-produttivi. La riforma del mercato del lavoro,
del resto, a partire dalla revisione sperimentale dell'articolo 18
dell'ormai antiquato Statuto dei lavoratori, è stato uno dei primi
impegni assunti dal governo scaturito dalle elezioni del 13 maggio
2001. Si tratta di un'iniziativa necessaria che, però, va
inquadrata e chiarita in un processo più vasto e articolato. Un
troppo facile nuovismo, giocato sulla sola manovra parlamentare,
non riuscirebbe infatti a dare ragione di questa stagione
riformista e, soprattutto, rischierebbe di apparire come l'esatto
opposto di una consapevole opera di innovazione.
Non basta pensare di riformare solo attraverso il ricorso a un
decreto o a un voto in Parlamento. Occorre spiegare, fornire
l'interpretazione complessiva del quadro, dispiegare chiaramente
il processo di cambiamento di fronte ai vasti strati della
popolazione, soprattutto per vincerne le resistenze diffidenti e
il sentimento di paura di fronte al nuovo. Occorre fornire un
punto di vista, il punto di vista. Per dirla con le parole dello
stesso Marco Biagi: "E' legittimo considerare ogni elemento di
modernizzazione o progresso un pericolo per le classi socialmente
più deboli. E' sempre stato così nella storia che anche in questo
caso si ripete. Tutto il disegno di legge 848 costituisce il
passaggio dal vecchio al nuovo e vien da pensare che dopo
l'articolo vi sarebbero state altre parti di quel testo a subire
il veto di parte sindacale. Lo stesso "Statuto dei lavori"
significa rivedere le tutele delle varie forme di lavoro e non
solo estendere quelle attuali a chi ancora non ne dispone. Ogni
processo di modernizzazione avviene con travaglio, anche con
tensioni sociali, insomma pagando prezzi alti alla
conflittualità".
Occorre, in altre parole, riuscire a fornire rappresentanza
politica alle stesse tensioni sociali, inverandole e
politicizzandole nei processi di riforma. Il conflitto va compreso
non compresso, affrontato non annullato. E' enorme la differenza
tra questo approccio - quello giocato sulla libertà,
sull'accettazione agonistica della sfida - e il pensiero
socialdemocratico e socialmente debole, risentito e rassicurante,
tutto ripiegato sulla difensiva. E il Daily consiste soprattutto
nella prospettiva di mutazione antropologica derivante da un
approccio ispirato al riformismo politico e non al
rivendicazionismo assistenzialista e conservatore. Un Daily,
appunto, che fa propria la dinamica della competizione, che si
arrischia con travaglio e che, come diceva Biagi, è consapevole di
pagare anche "alti prezzi di conflittualità". Un Daily che, però,
consentirebbe di coniugare, in un unico progetto, flessibilità del
lavoro, energia agonistica, fervore produttivo, creatività della
tradizione italiana, nuovo ruolo di supporto degli enti locali
(anche sul piano del rafforzamento psicologico dei soggetti
impegnati nella ristrutturazione-riappropriazione). Una ricetta in
grado di consentire alle nostra impresa di competere nel mare
aperto della globalizzazione. E' su questa base che deve allora
impostarsi l'oggettivo interesse governativo per uscire
dall'impasse determinato dal minimalismo di una impostazione non
coinvolgente rispetto al modello sociale. Una reale azione
riformatrice è infatti capace di trasformazioni socio-economiche
ma anche - contemporaneamente - di espressione politica e di una
narrazione pubblica all'altezza degli eventi.
Si colloca in questo quadro il dibattito su un nuovo paradigma di
relazioni industriali adeguato alle sfide dell'economia globale,
un dibattito cui dedichiamo il dossier che segue. Ipotizzare oggi
un modello alternativo a quello ingessato dalle vecchie tutele e
dalla concertazione delle parti sociali non significa, infatti,
tornare a paradigmi socialdemocratici ma, al contrario, introdurre
uno schema inedito di democrazia economica che contemperi
solidarietà ed efficienza e che tenga conto del tasso necessario
di conflittualità. Si tratta della partecipazione competitiva, un
modello di relazioni industriali del resto ormai alle porte sia
con la società per azioni europea, cui dobbiamo adeguarci, sia con
alcuni progetti di legge presentati da parlamentari del
centro-destra e recepiti dal ministro Maroni, il quale aveva già
dedicato a questa novità l'ultima parte del suo Libro bianco sul
lavoro. E' un progetto d'ampio respiro nell'ambito di una società
sempre più libera, dinamica e flessibile. Il concetto di
partecipazione - nelle sue varie declinazioni: partecipazione
attiva di chi lavora alle responsabilità, alle scelte aziendali,
agli utili - contiene potenzialità evocative di nuove passioni
politiche non inferiori al federalismo o all'estensione degli
spazi di libertà. Abbiamo ritenuto opportuno introdurre il tema ai
nostri lettori fornendo i contributi di un economista-politico
(Renato Brunetta), di un sindacalista attivo su questo specifico
fronte (Pier Paolo Baretta) e di un autorevole manager delle
risorse umane (Maurizio Castro). Contributi non solo teorici ma
espressi da chi opera nella massima concretezza dei rapporti
quotidiani nel mondo economico, sociale e della produzione.
7 giugno 2002
(da ideazione 3-2002, maggio-giugno)
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